- 1992 - Bischof, un sogno di purezza/Corriere del Ticino
- 1992 - Selections 5, The International Polaroid Collection - Presentazione mostra, Galleria Gottardo (Lugano)
- 1996 - Intervista a Philip Lorca di Corcia, "News. Iniziative di fotografia contemporanea“
- 1998 - Intervista a Ferruccio Malandrini, “Fotostorica n.1“, Canova edizioni
- 2000 - Problematiche e campi di applicazione della ricerca iconografica, Sansoni , 2000
- 2001 - La ricerca iconografica, Professione Fotografo, Editrice Il Castoro
- 2002 - Fotografia ed inconscio. Sulle immagini di Alessandra Capodacqua
- 2004 - Nascita di un linguaggio," Ferrania. Storie e figure di cinema e fotografia", De Agostini
- 2004 - La Fototeca dell'Istituto Agronomico per l'Oltremare dalle origini ad oggi, Edizioni Masso delle Fate
- 2004 - Uomini e spazi, "Ferrania. Storie e figure di cinema e fotografia", De Agostini
- 2008 - Cotone e Poggetto nelle fotografie di Waris Grifi.Testo di presentazione della mostra al Parlamento Europeo di Bruxelles
- 2005 - Pensieri in libertà, Assoluto Naturale, Ed Arti Grafiche Friulane
- 2006 - Fotografia come progetto. Testo di presentazione in catalogo e mostra di S. Amodio /Istituto degli Innocenti, Firenze
- 2008 - Oggetti risplendenti, presentazione della mostra, Museo G. Galilei, Firenze
- 2011 - La consapevolezza della posa, Il corpo in posa, Bononia University Press
- 2011 - Il corpo esposto, Il corpo in posa, Bononia University Press
- 2011 - La commedia umana, Il corpo in posa, Bononia University Press
- 2016 - The land that remains di Federico Busonero. Presentazione al Consiglio Regionale della Toscana
- 2016 - Diventa fiume
La galleria Matasci di Tenero ospita in questi giorni la mostra di Werner Bischof(1916-1954) una figura chiave nel panorama del fotogiornalismo moderno, un autore dalla straordinaria personalità creativa, oltre che un uomo di grande impegno morale, che, nella sua pur breve vita, si è confrontato continuamente con il dubbio e la riflessione su ciò che stava facendo.
I suoi diari e le lettere testimoniano, infatti, una costante tensione volta a risolvere dialetticamente la contrapposizione tra Arte e Realtà, tra Bellezza e Tragedia, la volontà di pervenire ad una forma di espressione fotografica capace di mediare l'impegno ideologico con il rigore della composizione formale.
La biografia di Bischof può essere un utile strumento di lavoro per aiutarci a capire da dove provenga l'eccezionale forza delle sue immagini, la sua capacità di sperimentare tutte le possibilità offerte dallo strumento fotografico, cercando sempre di trovare l'ordine e non la casualità delle cose.
Anche se non si deve sottovalutare l'influenza della madre, appassionata di tematiche religiose e filosofiche, per Bischof è fondamentale l'esperienza della Scuola di Arti e Mestieri di Zurigo dove, nella sezione fotografia, incontra un personaggio determinante per la sua maturazione artistica e personale: l'insegnante di fotografia Hans Finsler, esponente di punta insieme ad Albert Renger-Patzsch e Karl Blossfeldt del movimento della 'Nuova Oggettività'.
Grande amante della pittura, scoperta fin da bambino, e in profonda sintonia con la Natura, Bischof fu educato da Finsler alla passione per le geometrie naturali e la bellezza degli oggetti, elementi questi che il movimento della 'Nuova Oggettività' poneva al centro del proprio interesse fotografico.
Non bisogna dimenticare, infatti, che negli anni Venti in Germania, Olanda e Svizzera si formano diversi movimenti artistici caratterizzati da un approccio non sentimentale alla natura della società, dal "desiderio di prendere le cose del tutto oggettivamente a partire dalla loro base materiale, senza investirle immediatamente di implicazioni ideali" (G.F.Hartlaub, 1929)
In fotografia ciò significò rompere con il pittorialismo, con le complicate stampe al carbone e alla gomma bicromatata, con l'utilizzo del flou per rivendicare invece la centralità della visione diretta, della materia-forma e funzione degli oggetti.
Questo approccio influì indubbiamente sullo stile fotografico del giovane Bischof ma non gli impedì di coltivare e sperimentare con curiosità e libertà le possibilità del mezzo fotografico.
Fin da giovanissimo rivelò un'originalità marcata e una precoce autonomia organizzativa che lo portò, a soli vent'anni, ad aprire uno studio in proprio come fotografo e grafico e, successivamente, a collaborare stabilmente con la redazione di 'DU'
Ma il fascino per lo studio delle variazioni luminose e per la struttura materica degli oggetti non riuscì a soddisfare interamente Bischof, giovane fotografo alla ricerca della propria umanità.
Profondamente colpito dalle vicende del secondo conflitto mondiale, Bischof inizia infatti ad interrogarsi sul significato che Arte e Bellezza possono continuare ad avere in un mondo stravolto dalla sofferenza e dalla tragedia.
A partire dal 1945 comincia a trasferire sull'uomo, sulla sua storia e la sua vulnerabilità, la concentrazione un tempo riservata alle forme e alla materia: il "volto dell'uomo sofferente" diventa così il nucleo centrale del suo lavoro.
La fotografia "Figlio di profughi italiani", scattata in un centro di raccolta del Ticino, può essere considerata l'immagine chiave di questo nuovo percorso.
Bischof risente senza dubbio dell'esigenza, comune a tutti i fotografi europei dell'immediato dopoguerra, di dimenticare gli orrori del conflitto abbandonandosi ad immagini liriche in cui donne, bambini e frammenti del quotidiano sono i soggetti privilegiati. Ma a differenza di autori come Boubat, *Izis e Ronis, egli riesce però a rifuggire dal sentimentalismo che rischia spesso di diventare scarsa adesione alla realtà e fuga dalle contraddizioni della civiltà contemporanea .
Bischof era infatti partecipe del dibattito teorico sulla pretesa obiettività del mezzo fotografico e sapeva bene che la fotografia può rendere tollerabile la realtà così come la bellezza può trasformarsi in menzogna: ciò nonostante non rinunciò mai a testimoniare, attraverso le sue immagini, la fiducia nel mondo e nell'uomo.
In Bischof la capacità di farsi interprete dei grandi mutamenti storico-sociali si affianca così ad una fotografia umanista che più che documentare preferisce soffermarsi ad interpretare le cose, a sottolineare intuizioni od atmosfere.
Di fronte al male del mondo, egli cerca infatti di non trascurare mai l'armonia tra gli uomini e le cose, convinto che la Bellezza sia la verità stessa della natura e non un arbitrario abbellimento estetico.
E' questo sogno di purezza, questo ideale incrollabile di un mondo migliore, che rappresenta a nostro avviso la chiave di lettura per accostarci con maggior attenzione alla sua produzione fotografica.
Sostenuto dalla forza della pietà, Bischof arriva così a produrre immagini forti ma scolpite con estrema misura perché educate dal rigore della composizione formale.
Nel suo lavoro eventi tragici come la guerra, la morte e la fame non diventano mai pretesti per immagini d'effetto: la tragedia rimane nelle cose e non si esprime mai con stampe sovraesposte o sgranate, con luci affioranti dall'oscurità o con l'utilizzo di ottiche grandangolari, elementi linguistici che tendono ad enfatizzare la teatralità.
Tutto in Bischof si struttura all'insegna dell'equilibrio formale: a partire dalla composizione che si rifà a schemi classici e raramente sperimenta l'uso di quinte, inquadrature casuali, mosso o sfuocato. Anche le stampe sono nitide per consentire al lettore una totale decifrabilità e percettivamente luminose per non caricare di eccessiva retorica l'evento fotografato.
Bischof non si considerava un reporter e non gradì mai tale qualifica professionale; non voleva limitarsi a produrre documentazioni politiche, tempestive e d'effetto e fu sempre polemico nei confronti dei corrispondenti di guerra "le iene dei campi di battaglia che vedono solo quello che potrebbe far colpo sulla stampa internazionale, dimenticando che esistono anche anime umane senza uniforme".
L'adesione a Magnum (la prestigiosa agenzia fotogiornalistica fondata nel 1947 da Cartier-Bresson, Capa, Seymour e Rodger per assicurare l'indipendenza materiale e morale dei suoi membri e metterli al riparo dalla censura di editori ed art-director) radicalizza questa tensione ideale e lo spinge a seguire sempre più il proprio impulso interiore, ad addentrarsi nelle storie fotografiche che tratta senza limiti di tempo convinto che "può aver valore solo un lavoro approfondito, completo, realizzato con tutto il cuore".
Tra gli anni 1950-1952 realizza alcuni fra i suoi reportages più significativi: basti pensare al servizio sulla carestia in India, al reportage sull'isola prigione di Koje-do in Corea o alle splendide fotografie realizzate ad Hong-Kong e in Giappone.
Le mmagini diventano sempre più intense, capaci di spingere l'osservatore ad immedesimarsi e a comprendere; immagini di straordinaria potenzialità evocativa che, pur connotate da forti valenze simboliche, riescono a tener conto sempre dell'individualità e della quotidianità del reale.
Di fronte a questo genere di fotografia in cui la partecipazione commossa prende il posto dell'azione, dello shock visivo o della semplice descrizione dell'evento, alcune riflessioni sul ruolo attuale del fotogiornalismo oltre che sulla funzione sociale e culturale del fotografo s'impongono.
Oggi più che mai è necessario, infatti, chiedersi se abbia un senso per la fotografia cosiddetta 'di strada' continuare a sfidare le leggi del possibile, del nuovo e del sorprendente, producendo immagini sempre più 'volgari' e di immediato consumo.
Di fronte alla concorrenza articolata ed invasiva della comunicazione televisiva, il reportage fotografico dovrebbe chiedersi se giornali e riviste che sono i mezzi tradizionalmente usati per veicolare il proprio messaggio visivo, siano ancora strumenti validi o se, invece non sia piuttosto il libro fotografico il luogo ideale per accogliere strutture narrative complesse e per lasciare spazio ad una fruizione più intima e personale.
Questa mostra, che rende omaggio ad un autore così profondamente coinvolto in queste problematiche, ci suggerisce che è doveroso riportare il dibattito e la fotografia stessa sui binari della riflessione e della ricerca di senso.
Come dice Roland Barthes, la fotografia può diventare sovversiva "non quando spaventa, sconvolge o anche solo stigmatizza, ma quando è pensosa".
Daniela Tartaglia
Le opere esposte in questa sede fanno parte di una mostra itinerante 'Selections 5' che raccoglie 160 fotografie Polaroid scelte tra oltre mille immagini recentemente acquistate dalla International Polaroid Collection.
Frutto di una selezione accurata, operata da J. Claude Lemagny (conservatore della Biblioteca Nazionale di Parigi per le stampe, i disegni e le fotografie), l'esposizione ci consente di cogliere l'inquietudine creativa che percorre oggi la fotografia contemporanea e di soffermarci sulla sua caratteristica di linguaggio, sulle possibilità aperte alla visione, sul valore della fotografia come strumento di comunicazione.
Pur concedendo spazio ad immagini in cui è preminente la funzione descrittiva, l'esposizione percorre un itinerario fortemente caratterizzato dalla sperimentazione, dalla messa in scena, dalla frantumazione e dalla dilatazione del reale.
L' "immagine fabbricata" è dunque la grande protagonista di questa mostra che riconferma la capacità evocativa della fotografia e il bisogno irrinunciabile di avventurarsi nel regno dell'effimero e dell'immaginario, di suggerire o far intravedere nuove possibilità, di mettere a nudo le proprie lacerazioni.
A volte la lacerazione interiore diventa anche gesto esteriore con cui gli autori trasferiscono il supporto della Polaroid, simbolo del consumo immediato e del positivo immediato, su materie antiche come la seta, il legno o la carta da disegno.
Attraverso queste operazioni di trasferimento ed altri tipi di interventi pittorici, gli autori si riappropriano dell'abilità artigianale, si ricollegano alle arti plastiche e, indirettamente, anche agli esperimenti realizzati dai primi fotografi, alla matericità della calotipia, dei negativi di carta.
Ma anche quando la Polaroid si limita a "registrare", trascrive sempre complesse messe in scena e dunque gli elementi che caratterizzano la costruzione delle immagini rimangono la manualità e la manipolazione del reale.
In questo modo gli autori sembrano ricollegarsi ad episodi fondamentali della storia della fotografia, conciliando talvolta eredità tra loro molto diverse. Si pensi alle stampe composite, realizzate da Reilander e Robinson in Inghilterra alla metà dell'Ottocento oppure alle elaborate stampe al carbone e alla gomma bicromatata della fotografia pittorialista di fine secolo.
Entrambe queste esperienze facevano riferimento a tecniche di distanziamento dalla realtà il cui fine ultimo era quello di esorcizzare la caratteristica meccanica, ritenuta antiestetica, della fotografia.
Si pensi anche al diverso atteggiamento delle avanguardie artistiche che operarono attorno agli anni Venti. Autori come Man Ray, Heartfield e Hausmann utilizzarono la tecnica fotografica, rifiutata dal mondo accademico, per negare i canoni di giudizio dell'estetica tradizionale ed allargare a qualsiasi strumento - fosse esso l'uso del fotomontaggio, la sovrapposizione di più negativi o le esasperate elaborazioni in camera oscura- la soggettività della visione.
La maggior parte degli autori presenti in questa mostra si muove decisamente lungo questa direzione e fa propria l'esaltazione dell'ambiguità, del doppio, del travestimento, della contraddizione esistenziale tra vero ed artificiale.
L'ambiguità del reale diventa anche ambiguità della percezione spaziale, messa in discussione della restituzione prospettica convenzionale, annullamento del senso di profondità e dei tradizionali parametri di interrelazione spaziale (alto/basso; destra/sinistra).
Gli autori ricorrono alla smaterializzazione degli oggetti fisici attraverso riflessi, sovrapposizioni, trasparenze e ingrandimenti esasperati che esaltano la grana della pellicola e riportano alla materia della fotografia.
Corrisponde a questa ambiguità del reale e al bisogno di non concludere più in un unico e prestabilito fotogramma il contenuto del proprio lavoro, il ricorso frequente a stampe di grande dimensione, alla costruzione di dittici, trittici e di immagini-mosaico.
Gli autori rivelano i loro mondi interiori, riflettono sul passato, sull'evoluzione della specie, affrontano problematiche filosofiche ed esistenziali ma lo fanno quasi sempre in modo ambiguo, non univoco. Si pongono dei dubbi, non offrono delle certezze; caso mai delle possibili letture.
L'interpretazione aperta ci obbliga a diventare a nostra volta autori, ad essere attivi, a non essere più rassicurati dalla pretesa oggettività della fotografia.
L'ambiguità diventa la vera natura della fotografia e il reale cessa di essere il referente obbligato. Questa constatazione continua ad aver senso anche quando le immagini prescindono dalla costruzione fantastica e sembrano collocarsi nel filone del realismo fotografico poiché anche la raggelante somiglianza del documento, la metodica attenzione ed esplorazione del mondo naturale non possono essere più acriticamente considerati "ciò che realmente esiste ma solo ciò che ognuno di noi realmente percepisce".
Oggi, per usare le parole di Moholy-Nagy, "è del tutto privo d'importanza che la fotografia produca arte oppure no" dal momento che l'attenzione si è spostata dal prodotto artistico come oggetto alla progettualità che sta alla base del lavoro dell'artista.
Questa tendenza, rafforzata a partire dagli anni '50 da uno spostamento "da ciò che il mondo sembra a ciò che noi pensiamo del mondo e a ciò che noi vogliamo il mondo significhi" (A.Siskind,I952), ha prodotto una frattura storica irreversibile che ha portato all'annullamento della tradizionale dicotomia tra documento ed espressione artistica.
Tale modificazione ci ha permesso di approdare ad una definizione aperta dell'arte, di muoverci in modo più libero nell'osservazione e nella critica, di accettare l'ambiguità e la soggettività della fotografia, perché non più condizionati da opprimenti criteri di giudizio che possono rifarsi tanto alla perfezione tecnica quanto alla bellezza estetica o alla verosimiglianza.
Se un criterio si deve adottare questo deve riguardare la capacità dell'autore di indagare e approfondire la ricerca sul linguaggio del mezzo che ha a disposizione, di leggere ed interpretare l'ambiguità della percezione, di produrre immagini generate da una visione critica del mondo oppure di pervenire alla scoperta di sé.
Tale distinguo può lasciar spazio a qualsiasi stile, a differenti modi di accostarsi ad un soggetto, può far coesistere l'approccio realistico con la sequenza narrativa o il travestimento perché si guarda alla fotografia non più come rappresentazione bensì come indagine.
Daniela Tartaglia
Testo di presentazione della mostra Selection Five, Galleria Gottardo, Lugano
INTERVISTA A FERRUCCIO MALANDRINI
a cura di Daniela Tartaglia
DT La domanda é un pò scontata ma vorrei sapere come inizia la tua passione per il collezionismo fotografico e per la fotografia in generale.
FM Il mio interesse per la fotografia inizia attorno al 1948, mediato da quello per il cinema. Verso i diciotto anni - età in cui si comincia ad uscire dal bozzolo della famiglia e degli amici, in cui si cominciano ad intravedere altre dimensioni del mondo - fui preso dall' interesse per il cinema, dall'impegno culturale e politico.
In quegli anni seguire il cinema significava impegnarsi culturalmente poichè nel dopoguerra la cultura cinematografica era la cultura dell'impegno sociale.Tutto ciò ti portava a seguire certe riviste - Cinema nuovo, Il Contemporaneo, Il Politecnico, ad esempio - che avevano una forte caratterizzazione ideologica.
Cinema nuovo, diretta da Aristarco, era una rivista emblematica per chi si occupava di cinema in quegli anni. Non era solo la rivista di Antonioni, di De Sica, di Visconti, di De Santis ma anche una rivista su cui si pubblicavano i fotodocumentari di Pinna e Sellerio, le prime fotografie realizzate da Paul Strand in Italia , le immagini di New York di William Klein.
La rivista - attenta alle vicende della fotografia - mi coinvolse molto e saldò il mio amore per il cinema con la fotografia.
Attraverso queste ed altre pubblicazioni tra cui il libro di Mollino, il Fotoquaderno N.1 con le foto di Invernizzi e Moncalvo, i libri di Cartier-Bresson e Klein pubblicati da Feltrinelli, si costruì - attorno agli anni 1950-1955 - un corpus di immagini, personalità e luoghi della fotografia essenziale al mio coinvolgimento sempre più stretto con questo mezzo espressivo.
Con il tempo , grazie anche alle ore passate nelle librerie a cercare libri di cinema, questo terreno si allargò sempre più . Trovai pochi, ma per me fondamentali, libri di fotografia : i ritratti ambientati di Carlo Mollino, i microlibri di Scheiwiller.
Ma è Il messaggio della camera oscura (1949 ) di Carlo Mollino che mi da un'apertura, che mi fa conoscere le problematiche estetiche e filosofiche della fotografia, che mi fa conoscere i fotografi fondamentali da lui segnalati : Atget, Man Ray, Nadar, Alvarez Bravo.
Ricordo che rimasi affascinato da queste fotografie e dalla scoperta della dimensione artistica della fotografia.
Ancora oggi, a tanti anni di distanza, posso dire che le direttrici da lui individuate furono fondamentali per la mia formazione futura.
Poi ci fu Un paese (1955 ) di Paul Strand. Il libro - che allora non ebbe alcuna fortuna editoriale - mi entusiasmò a tal punto che mi prefissi di fare altrettanto, di fotografare tutti i miei compagni di lavoro e i luoghi della fabbrica, accompagnando le immagini con una didascalia.Naturalmente non realizzai niente di tutto ciò.
DT Tra le riviste citate non figura Life che pure, in quegli anni, era un passaggio obbligato per chi voleva occuparsi di fotografia . Come mai ?
FM Perchè non la conoscevo. I miei punti di riferimento erano altri, più italiani. Come ho già detto : Il Contemporaneo, Il Politecnico, Lavoro (settimanale della CGIL).
Mi sono avvicianto anche a Ferrania , in quegli anni, ma non la trovavo interessante. E mi sbagliavo. Allora avevo un concetto troppo intellettualistico della fotografia.
Preferivo Camera che, a partire dal 1958, cominciai ad acquistare regolarmente : li trovavo corrispondenza di gusto, di interessi, di linguaggio.
DT Ma, esattamente, quand' è che nasce il tuo coinvolgimento diretto con la fotografia? Quand'è che inizi a fotografare?
FM Grosso modo attorno al 1962. Ricordo che comprai una Rolleiflex 6x6 ed una macchina fotografica formato Leica con cui iniziai, immediatamente, a fotografare, di tutto.Portavo le macchine fotografiche sempre con me, anche al lavoro, tanto che le persone della piccola città di Siena mi indicavano ormai come 'quello con la macchina fotografica'.
In quell'anno ci fu poi un viaggio in Cecoslovacchia che, dal punto di vista fotografico, mi impegnò molto. Credo che i risultati siano ancora oggi apprezzabili.
DT A chi - allora - facevi vedere il tuo lavoro? Con chi ti confrontavi?
FM Sostanzialmente con i miei amici che erano sempre esageratamente entusiasti ed estraevano problematiche di tipo esistenziale dalle mie immagini. Non era ovviamente un confronto ma solo un apprezzamento automatico. Era, comunque, un modo di trasmettere delle immagini a delle persone interessate a vederle.
DT Non ti interessava entrare in contatto con i critici fotografici di allora?
FM Ero fondamentalmente un 'isolato': non partecipavo ai concorsi fotografici nè compravo riviste di settore, salvo quelle di cui ti accennavo prima. Unica eccezione la mia partecipazione al concorso fotografico bandito da Lavoro , il settimanale della CGIL, dal titolo "Un giorno della vita". Non si trattava del solito concorso fotoamatoriale perciò partecipai inviando 5 fotografie di contenuto esistenziale. Fotografie che furono tutte pubblicate su una pagina speciale e ricevettero il primo premio. E' uno dei ricordi più simpatici della mia vita.
DT Come avviene il passaggio da questa dimensione fotoamatoriale a quella professionale ?Com'è che decidi di lasciare il lavoro e di trasferirti a Milano per tentare l'avventura del fotoreporter?
FM Non userei il termine fotoamatoriale per definire l'attività fotografica di quegli anni. Non dimenticare che negli anni Sessanta - oltre a fotografare per conto mio e a realizzare dei fotodocumentari - assolvevo anche a compiti di tipo commerciale: fotografavo oggetti per cataloghi industriali, realizzavo servizi fotografici per architetti che dovevano documentare la loro opera. Insomma: facevo un pò di tutto ma sempre professionalmente.
Una volta arrivato a Milano il problema era di trovare lavoro e di guadagnare abbastanza per potersi mantenere. Cosa che nel giro di pochi mesi mi riuscì. Naturalmente vivevo in una camera d'affitto, mangiavo alla mensa de L'Unità; avevo insomma una vita minimale!
DT Mi stupisce, tuttavia, la tua capacità di apprendimento e realizzazione in tempi così brevi. Se non ricordo male ti trasferisci a Milano - pronto ad iniziare la tua avventura fotografica da free-lance - nel marzo 1964, appena due anni dopo aver iniziato a fotografare. Una scelta che comporta di sapersi anche rapportare alla committenza.
FM Allora io mi buttavo nelle situazioni anche se - intendiamoci -avevo abbastanza paracaduti; non ero così incosciente da trasferirmi a Milano senza conoscere nessuno. Ricordo, anzi, che nei mesi precedenti la mia partenza, presentato da amici di amici, avevo avuto parecchi incontri con personalità milanesi della fotografia. Uno degli incontri più interessanti, che meriterebbe una riflessione a parte, fu senza dubbio quello con Ugo Mulas.
Ma una volta arrivato a Milano, di questi contatti e di questi discorsi non seppi che farmene. Li avevo le mie piccole preoccupazioni giornaliere legate ai servizi di cronaca che dovevo realizzare per L'Unità o Vie Nuove.
Ricordo che verso le dodici ricevevo dal giornale le indicazioni relative alle fotografie da realizzare: andavo a farle, saltando da un tram ad un taxi, e poi scappavo a svilupparle e stamparle per poterle consegnare in tempo. Molto spesso aspettavo fino alle tre di notte per poterle vedere, fresche di stampa, sul giornale. A quel punto andavo a letto, pronto a ricominciare una nuova giornata.
Anche se non rifuggivo gli altri ero immerso in un bozzolo tutto personale. Non avevo tempo per gli altri (anche se agli altri risultavo sempre simpatico), non avevo tempo per i discorsi, per i consigli.
Ero sommerso dal mio giornaliero e poi più che altro avevo da fare.
DT Trovavi il tempo per realizzare le tue fotografie?
FM Si, certamente. Non dimenticare che portavo sempre la macchina fotografica con me e che anche quando fotografavo su committenza cercavo di realizzare delle immagini personali.
Nella maggior parte delle fotografie di Milano, quelle che ancora oggi mantengono un certo fascino, sono sicuramente quelle realizzate in assoluta libertà. Tuttavia si possono trovare degli scatti interessanti anche nelle fotografie eseguite per la cronaca e commissionate dai diversi giornali e giornaletti della Sinistra.
L'evento più coinvolgente dal punto di vista del reporter resta comunque, nel 1964, la partecipazione ai funerali di Togliatti, a Roma. Pensa, che nel decennale della morte di Togliatti - il cui mito resiste ancora oggi - il partito mi incaricò di organizzare una grande mostra a Siena. Una mostra di forte impegno, anche economico.
DT Parliamo adesso della tua attività di raccoglitore di vecchie fotografieQuando e dove hai iniziato ad acquistare fotografie? Ti ricordi qual é stata la prima fotografia che hai comprato?
FM Un nucleo consistente delle mie fotografie è stato da me acquistato tra il 1975 e il 1980, grazie all' aumentata disponibilità economica derivante dall' attività di fotografo ed organizzatore di mostre fotografiche svolta a lato di quella di elettrotecnico.
In realtà però avevo già comprato fotografie a Lione, nel 1958, dove mi ero trasferito per motivi di lavoro.
L'appartamento in cui vivevo a quel tempo era situato nella piazza dove si svolgeva il tradizionale 'marchè aux puces' che, nella mia vita solitaria , frequentavo forzatamente e assiduamente.
Li, un giorno, un camion scaricò un' enorme massa di fotografie formato Gabinetto provenienti da importanti studi fotografici francesi dell' Ottocento.Ricordo che, in quell' occasione, ne acquistai alcune decine. Comunque già al mio ritorno a Siena, nel 1959, avevo con me circa trecento fotografie.
La mia avventura nel campo del collezionismo fotografico inizia tuttavia molto più tardi, attorno al 1980, quando per una serie di vicende personali, ormai libero da quotidiani impegni di lavoro, decido di trasferirmi a Firenze.
Avevo molto tempo a disposizione , allora, e cominciai ad impiegarlo con successo nella raccolta di materiale fotografico.
Non bisogna dimenticare che a Firenze c'era un terreno fertile. Basti pensare alla sua posizione geografica, al ruolo di attrazione rivestito nel corso dell' Ottocento, alle realtà intellettuali ed economiche che ci sono state fin dai primi anni della nascita della fotografia. Alludo al Granducato di Toscana, alla presenza di molti stabilimenti fotografici importanti tra cui gli ancor noti Alinari e Brogi, all'operato della Società Fotografica Italiana. Tutto questo ha lasciato delle tracce, dei reperti che affiorano ancora oggi e massimamente affioravano nei primi anni Ottanta, data del mio arrivo a Firenze.
DT Nella tua collezione attuale, ma anche in quella che nel 1987 hai ceduto al Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, è rara la presenza dei 'maestri' della fotografia. Come mai?
FM Semplicemente perchè io sono sempre stato 'vicino alla terra'. E' vero che non ho privilegiato i grandi autori ma questo è successo perchè nei mercatini, nei negozi di antiquariato e di stampe, nelle librerie - i luoghi che tradizionalmente frequento - è difficile, trovare fotografie di Stieglitz . Li non si incontrano nè i Man Ray nè gli Stieglitz nè altri.
Però si possono fare incontri di un certo livello. Deve essere chiaro che io non compro fotografie da fotografi famosi, non compro fotografie da mercanti specializzati o nelle aste. Le compro dappertutto, dove le trovo, eccetto che in questi luoghi.
DT Si, questo è vero, anche se conoscendoti, ritengo vi siano altre motivazioni legate più che altro alla tua militanza di sinistra, al tuo retaggio culturale, al tuo interesse per la "Storia".Penso agli storici degli Annales, al loro interesse per i reperti, anche quelli minori.
FM Questa è per me una dimensione necessariamente naturale, perchè io viaggio "vicino alla terra", alla rappresentazione della realtà dell'uomo, delle piccole vicende quotidiane anche se sto sempre attento a cogliere l'aspetto formalistico di queste cose.
Tu, un po troppo schematicamente, interpretavi questo atteggiamento come marxista. In realtà questa definizione mi va stretta perchè all' interno dell' impegno politico sono sempre stato considerato il fantasista, il canzonatore del realismo.
Ciò nonostante ribadisco la mia vocazione minimalista ed il mio interesse per tutto quello che l'umanità riesce ad accumulare sotto forma fotografica, restituendola come rifiuto.
La consapevolezza di sapere che questo 'rifiuto' non è tale e che questi materiali hanno un gran valore rende la mia ricerca ancor più appassionante.
DT Il termine 'collezionista' spesso accomuna persone che acquistano fotografie perchè mosse da un puro piacere estetico e persone che collezionano con intenti ed approcci storico-documentativi.Nel tuo caso questi due aspetti coesistono?
FM Una delle caratteristiche principali della mia raccolta è data dalla coesistenza di due filoni: da una parte ci sono le testimonianze fotografiche degli individui, degli autori che hanno contribuito a scrivere la storia della fotografia; dall'altra ci sono le testimonianze degli amanuensi della fotografia, le trascrizioni fotografiche popolari e vernacolari la cui importanza non deve essere assolutamente sottovalutata. Non a caso il Getty Museum ha istituito - accanto alla sezione relativa agli autori che hanno fatto la storia della fotografia - una sezione dedicata alle testimonianze della fotografia popolare e vernacolare.
Questo tipo di fotografia, insieme a quella scientifica o industriale, è per me parimenti significativa. Non separo le cosiddette immagini d'autore da quelle prodotte per committenza: anche un album contenente fotografie industriali è suscettibile di darmi emozioni di tipo estetico.
DT Quali sono le fotografie più interessanti che hai trovato negli ultimi anni?
FM Le fotografie interessanti da me trovate sono moltissime ma non è il caso di fare qui degli elenchi. Comunque - se proprio vuoi saperlo - ho trovato una bellissima marina di Gustave Le Gray, il cui prezzo di mercato è oggi molto alto. Ma anche: una fotografia di Costantinopoli eseguita da Robertson nel 1852, uno splendido album di Huard con immagini del suo viaggio in Russia e vedute di Leningrado .
E poi ci sono centinaia di fotogafie eterogenee, dedicate agli argomenti più diversi, in cui trovano posto piccoli archivi di fotografi.
E' una raccolta che comprende autori noti e meno noti, prodotti di studi fotografici, aggregazioni interessanti su realtà minori - ad esempio la fotografia a Siena - suscettibili di letture trasversali di vario genere.
Si fa un gran parlare, oggi, di antropologia involontaria e nella fattispecie di Disfarmer a cui, proprio in questi giorni, i Rencontres Internationales de la Photographie di Arles dedicano una mostra. Tu non ti immagini neppure quante realtà consimili siano state prodotte nei nostri paesi e quante situazioni avvicinabili a questa siano rappresentate nella mia raccolta.
Di una realtà d'insieme così stratificata non è possibile, comunque, restituire la complessità in un' intervista e in così brevi note.
DTLa tua raccolta è formata prevalentemente da stampe oppure c'è anche un nucleo consistente di lastre e negativi?
FM Privilegio le stampe fotografiche piuttosto che le lastre o i negativi, materiali che presentano notevoli problemi di immagazzinamento. Non sono il direttore di un museo, che ha a disposizione anche dei magazzini, ma un privato che nel raccogliere fotografie deve tener conto anche della grandezza del proprio appartamento.
Inoltre il mio è un modo intimistico di essere dentro la fotografia, che passa anche attraverso la dimensione delle cose.
DT A quanti pezzi ammonta, oggi, la tua raccolta? Quali criteri di ordinamento o catalogazione hai seguito?
FM Ho difficoltà a rispondere a questa domanda: di certo la mia raccolta si aggira sui 10.000/15.000 pezzi ma non lo posso affermare con esattezza poichè le fotografie non sono state inventariate nè catalogate.
E' uno dei crucci della mia vita ed anche uno dei miei desideri maggiori.Vorrei abbandonare, per un pò di tempo, qualsiasi altra occupazione per dedicare alcuni mesi all' ordinamento del materiale raccolto.
DT Cosa intendi con il termine ordinamento ?
FM Ordinamento per me vuol dire, in relazione alla mia collezione, ripercorrere questo insieme con determinate logiche che permettano di prendere coscienza dei materiali per poterne estrarre tutte le significazioni.
DT Hai mai pensato di realizzare una mostra con le immagini da te raccolte e selezionate nel corso degli anni?
FM No, non ci ho mai pensato seriamente anche se, in linea di principio, non mi dispiacerebbe.
Ma fondamentalmente non ne ho voglia perchè sono una persona pigra, a cui piace perdere tempo, che girella per la città, i mercatini, i negozi di antiquariato, perdendo tempo. E' così che trovo le fotografie.
Sono capace di lavorare ma lo faccio solo se non ne posso fare a meno. In genere non amo disciplinarmi. E poi sono più interessato al momento della ricerca.
Comunque la mia raccolta è ricca di motivi e potrebbe sostenere non una ma più mostre.
DT Ma se tu dovessi mostrare solo 100 immagini, fra tutte quelle che hai raccolto negli anni, cosa privilegeresti, quali criterio seguiresti?
FM Nella tua domanda c'è un equivoco che va sciolto. Io non ho raccolto secondo un piano ma ho raccolto tutto quello che ho trovato, scartando solo le cose rovinate o insignificanti.
DT Ma già nell' operazione di scarto esiste un criterio di selezione, non credi?
FM Certo perchè le cose insignificanti, di bassissimo interesse sono moltissime. Ma la selezione avviene, per me, quasi in modo fisiologico.
DT Quali sono i tuoi progetti futuri?
FM In primo luogo: ordinare - come ti ho già detto - la collezione di fotografie da me raccolte negli ultimi anni in modo che risulti intellegibile.
In secondo luogo: ordinare il mio archivio personale di fotografo ed, eventualmente, raccontarlo attraverso una mostra o un libro. Dovrebbe essere una cosa molto privata, un divertimento, un rileggere il proprio passato attraverso le fotografie. Questa commistione fra passato e presente mi piace moltissimo. E' uno dei vizi della fotografia.
Vorrei, tuttavia, che la cosa in sè fosse fatta perchè desidero che le cose abbiano una loro sistemazione, anche burocratica. Un archivio, anche brutto, anche poco significante - se è comunque legato ad una realtà operativa - per essere tale deve essere consultabile. Deve essere ben strutturato, se non altro per poterlo leggere e magari anche dimenticare.
DT Mi sono sempre chiesta come riesci a conciliare questa dimensione di 'collezionista solitario' con la collaborazione ormai decennale con gli Archivi Alinari.Non esiste un conflitto?
FM Io sono uno che si intende di fotografia, che raccoglie fotografie e come tale ha un rapporto con gli archivi Alinari. Per questa istituzione esplico delle missioni, fornisco delle consulenze, do dei pareri sull'opportunità o meno di acquistare dei fondi fotografici, valuto la correttezza delle richieste economiche.
A lato di questa collaborazione esiste poi la mia attività dicollezionista.
DT Quando ti imbatti in materiale fotografico che non puoi comprare o non puoi ospitare a casa tua come ti comporti?Lasci perdere oppure ne segnali la presenza alle istituzioni (pubbliche o private)in grado di salvaguardare ciò che viene disperso?
FM L' aspetto di salvataggio è per me molto importante. Quando mi trovo di fronte ad archivi interi, ad insiemi di notevoli dimensioni ed ingombro - soggiacendo all' ideale di preservare queste testimonianze -faccio in modo di dirottarle verso un 'istituzione o azienda vocata a questo tipo di interventi. Ovvero- attualmente - il Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari.
DT La tua biblioteca è recentemente confluita nel Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari. Al momento della cessione hai imposto dei vincoli relativi alla fruizione e alla permanenza a Firenze di questo patrimonio librario?
FM No, non mi sono posto il problema perchè oggettivamente non credo che esista tale pericolo. Anche se cambiassero gli attuali proprietari non penso che si procederebbe a vendere o smembrare un materiale così ricco. Siamo a Firenze, sappiamo difendere una ricchezza di interesse generale.
DT Mi sono sempre chiesta perchè - prima di cedere la tua biblioteca - non hai pensato a realizzare una mostra o una pubblicazione relativa alla storia e all' evoluzione del libro fotografico.
FM Perchè sono pigro ed amo più il momento della ricerca che non quello della realizzazione concreta.
DT Quali sono i libri più interessanti della biblioteca recentemente confluita negli Archivi Alinari?
FM La novità della mia biblioteca sta nella presenza consistente di libri illustrati con fotografie e che utilizano la fotografia dandole dignità grafica, facendola diventare parte principale dell'espressione di un libro. Magari sono libri d'industria o d'architettura che - pur non appartenendo intenzionalmente alla fotografia - di fatto esprimono una forte impostazione fotografica. Per perizia e per bellezza sono di fatto libri fotografici.
Nella mia biblioteca è notevole la presenza di questo tipo di libri.A lato ci sono naturalmente molti dei libri che appartengono per statuto alla storia della fotografia.
Tra i libri più rari e preziosi: Traité de photographie sur papier di Blanquart-Evrard (Paris 1851); Paris- Photographe (4 volumi, 1891-94 ); Le procédés d'art en Photographie di R. Demachy e C. Puyo (Paris 1906 ); Man Ray Photographies 1920-1934 (Paris 1934); Fotodinamismo futurista (Roma, 1912)
DT Cosa pensi dell'editoria fotografica contemporanea? Acquisti tutto ciò che trovi per gusto della documentazione oppure ti muovi con estrema selettività?
FM Come ben sai la costituzione della biblioteca è stata l' attività che maggiormente mi ha coinvolto e compromesso con la fotografia. Fino al 1980 il mio coinvolgimento con la fotografia è dato prevalentemente dalla biblioteca e dalla mia professione di fotografo . E' solo dopo tale data che inizio a raccogliere e collezionare stampe fotografiche in modo più 'sistematico'.
E' chiaro quindi che la mia attrazione rimane sempre molto forte. Io amo molto la fotografia nei libri. Ritengo, anzi, che la fotografia moderna - dagli anni Venti ad oggi - sia meglio collocata su un libro che fruita direttamente.
Nel fabbricare un libro fotografico c'è senz'altro più lavoro - una presentazione e un senso molto più preciso - che non in una raccolta di fotografie. C'è un valore aggiunto dato dal testo critico, dalla grafica, dal collocarsi sul mercato in un momento preciso, anche dal punto di vista ideologico.
Il libro resta, senza dubbio, per la fotografia il momento più complesso ed affascinante.
DT Negli ultimi venti anni ci sono stati libri - italiani o stranieri - che ti hanno particolarmente intrigato?
FM Si, tanti. Il Nadar del Museo d' Orsay, i libri di Avedon, i libri di Koudelka. Comunque è impossibile per me fare - seduta stante - una lista di libri esemplari. La pubblicistica è ormai ricchissima e molti sono i libri di elevata qualità.
PROBLEMATICHE E CAMPI DI APPLICAZIONE DELLA RICERCA ICONOGRAFICA(Cap.VII) in La fotografia in archivio, (a cura di Italo Zannier e Daniela Tartaglia) , Sansoni, 2000
CHE COS’E’ UN’IMMAGINE
Parlare di ricerca iconografica e dei requisiti necessari per esplicare tale professionalità significa, necessariamente, parlare delle immagini e di cosa c’è dietro di esse, indipendentemente dal modo di vederle.
Nel linguaggio corrente l’ immagine viene definita nei seguenti modi: forma esteriore di un corpo percepita coi sensi, specialmente con la vista; rappresentazione mentale o visione interiore di cose, persone, situazioni o percezioni reali, ma non più esistenti o non più percepibili nel momento attuale (1); rappresentazione visiva realizzata in presenza o in assenza di un modello da ‘copiare’, da ‘figurare’....dato che interessa tanto l’espressione quanto la comunicazione, l’imitazione quanto l’immaginazione, la creatività quanto la finzione, la percezione quanto la visione (2) ; messaggio ....con il quale si intende comunicare qualcosa(3)
Il termine rappresentazione ed il suo intrinseco significato di ‘presentare’ una seconda volta ciò che abbiamo veduto, pensato, immaginato è, come si vede, una costante che ritorna in tutte le definizioni di immagine e che focalizza l’ attenzione sulla valenza interpretativa di quest’ultima che, anche nel caso di un eccesso di realismo, non può mai essere pura replica o copia fedele del reale.
Tale problematica, suscettibile di approfondimenti ulteriori, potrebbe fornire intriganti indicazioni e sollecitazioni storico-critiche sui campi di produzione e manifestazione delle immagini.
In questa sede, tuttavia, data la centralità della fotografia nell’ambito della trattazione, ci limiteremo ad affrontare tale problematica con lo sguardo costantemente rivolto alle specificità della cultura fotografica.
IL DIBATTITO TEORICO RELATIVO ALLA NATURA DELL’IMMAGINE FOTOGRAFICA
L’immagine fotografica, per natura e statuto produttivo, si configura come un prodotto estremamente complesso in cui la meccanicità della macchina fotografica e la manualità dell’autore, mescolandosi e fondendosi, danno vita ad una sorta di “scrittura a metà”.
Per affrontare nella sua globalità tale problematica è necessario partire da questa constatazione di fondo, verificando se e come, il tasso di automaticità e specularità meccanica insita nel mezzo fotografico incida sul meccanismo di lettura e decodificazione dell’immagine fotografica.
Gia Roland Barthes nel suo celebre testo “L’ovvio e l’ottuso” (1982) (4)aveva evidenziato come la fotografia, per sua stessa natura, fosse un “messaggio senza codice”(5), ovvero un messaggio in cui il contenuto imitativo finiva per predominare sul valore connotativo dell’immagine.
L’immagine - scrive Roland Barthes - pur non essendo il Reale ne è quantomeno l’analogon perfetto (6)poichè porta sempre con sè il suo referente e lo trasmette alla lettera.
Anche se durante la ripresa fotografica vengono messe in atto tutta una serie di operazioni di riduzione del Reale (dalla tridimensionalità alla bidimensionalità, dal grande al piccolo, dal colore al bianco/nero, ecc),di fatto, nel passare dall’oggetto all’immagine, non si verifica mai una trasformazione.
Il fotografo può incidere sulla rappresentazione attraverso la scelta del punto di vista, la variazione dell’inquadratura o altro ma non può scomporre o ricomporre la realtà , non può operare una trasformazione.
La caparbietà del referente sembrerebbe, così, impedire alla fotografia di elaborare un suo codice, di stabilire una serie di regole ben precise per attuare il collegamento tra l’ oggetto rappresentato ed un modo di esprimersi, presupposto basilare per la messa a punto di un linguaggio.
A differenza di altri “messaggi senza codice” come il disegno,la pittura, il cinema o il teatro che, nel corso dei secoli , hanno sviluppato uno stile od elaborato un montaggio visionario, la fotografia risulterebbe bloccata al livello della pura denotazione a causa della sua pienezza analogica.
In realtà - anche se la codificazione è debole e non presenta quella compattezza riscontrabile nella comunicazione verbale o nel codice Morse, presi ad esempio di “codice forte” - è difficile sostenere perentoriamente l’assenza di un codice.
Scrive sempre Roland Barthes: Ora, questo statuto puramente”denotante della fotografia, la perfezione e la pienezza della sua analogia, in breve la sua “oggettività”, tutto ciò rischia di essere mitico (...): in effetti, è assai probabile( e questa sarebbe un’ipotesi di lavoro) che il messaggio fotografico (...) sia anch’esso connotato. La connotazione non è sempre percepibile immediatamente a livello del messaggio stesso (...), ma si può inferirla già da certi fenomeni che avvengono a livello della produzione e della ricezione del messaggio.(...) Il paradosso fotografico consisterebbe allora nella coesistenza di due messaggi, l’uno senza codice (sarebbe l’analogo fotografico) e l’altro con un codice (vale a dire l’”arte”, o il trattamento, o la “scrittura”, o la retorica della fotografia) (7)
E’, dunque, sulla debolezza del codice della comunicazione visiva che deve concentrarsi - a nostro avviso - l’attenzione di chi opera nel campo della cultura iconografica per evitare di spezzettare l’immagine fotografica ‘nelle possibili infinite interpretazioni che ogni individuo può darne’(8) ma anche di operare l’omologazione in un sistema linguistico chiuso.
La fragilità della fotografia lascia, infatti, intravedere una rete di indizi e di tracce, tutte ugualmente percorribili ed estremamente fertili che conducono, tra l’altro, ad una struttura aperta del sistema di comunicazione iconico e alla negazione di una corrispondenza univoca tra l’immagine ed un solo significato.
Come sappiamo il segno fotografico è un segno ‘significante’, strutturato cioè all’interno di un concreto rettangolo di carta (o altro materiale fotosensibile), attorno a figure, colori o partizioni grafiche.
Tuttavia questo segno iconico non esiste per sè ma tende ad avere un significato, a stabilire una relazione, un legame con qualcosa d’altro.
Oltre al livello denotativo - che si limita a indicare quello che è raffigurato nell’immagine e che, basandosi su strutture neuro-percettive, non necessita di essere imparato - il segno fotografico possiede, infatti, un livello connotativo. Questo valore aggiunto, di tipo simbolico, va al di là della raffigurazione materiale e deve essere imparato.(9)
Coloro che hanno privilegiato il codice primario e l’obbligatorietà del processo di significazione della fotografia hanno, di fatto, mutilato il segno fotografico e riperpetuato il vecchio pregiudizio che vede la fotografia come documentazione diretta e fedele della realtà.
E’ importante, invece, disancorare la fotografia dalla pesantezza del Reale e dalla presunta oggettività per considerarla pienamente mezzo di comunicazione e significazione.(10)
La fiducia nella capacità dell’immagine di ‘stare per’ deve necessariamente condurre ad integrare e collegare le immagini con il contesto culturale, con le intenzioni dell’autore, stimolando associazioni ed emozioni che non possono essere univoche.
Ciò significa, di fatto, indagare il mezzo nelle sue valenze tecniche ed espressive per capire quale sia il percorso con cui il fotografo può arrivare ad “aggiungere significato”.
Il fotografo può, infatti, incidere sulle modalità della rappresentazione utilizzando vari elementi linguistici a sua disposizione.
L’attività fotografica è, infatti, “il risultato di una scelta volontaria, di una selezione cosciente operata nella percezione della realtà” (11), il cui attributo sociologico sta proprio nel carattere di selezione che l’intenzionalità del fotografo pone in essere.
Può essere utile, per chi non è addentro a tale problematiche, far riferimento al dibattito teorico sviluppatosi negli ultimi decenni e, in particolar modo, alle tesi esposte da John Szarkowski nel suo celebre libro “The photographer’s eye” (1966).(12)
In questo libro “cult” della storia della fotografia, l’allora Direttore del Dipartimento di Fotografia del Museo d’Arte Moderna di New York ,chiarisce in che modo un fotografo possa riuscire a comunicare un suo preciso modo di vedere.
John Szarkowski individua cinque momenti fondamentali in cui si articola lo sgurdo del fotografo:
Il Soggetto ( The thing itself ). Il mondo - dice l’autorevole critico - è per l’artista un’incomparabile fonte creativa ma, sebbene la fotografia sia pesantemente ancorata alla Realtà, quest’ultima ha bisogno di essere filtrata dallo sguardo del fotografo per poter diventare un’immagine.
Poichè il soggetto e la fotografia non sono affatto la stessa cosa, il fotografo deve indagare la realtà e trovare ciò che merita di essere visualizzato.(13)
Per cominciare ad elaborare un linguaggio è indispensabile, dunque, che il fotografo sappia previsualizzare i contenuti ed i risultati del proprio lavoro fotografico.
Come sottolinea Szarkowski: Fotografare non è vedere. Fotografare è fotografare.
Il Dettaglio ( The Detail ). La fotografia può isolare ciò che lo sguardo quotidiano non riesce a fare perchè troppo legato alla velocità dell’esistenza.
Attraverso la scelta di un dettaglio significativo, ripreso con una precisa intenzione, il fotografo può isolare un pezzo di realtà, interpretarla, sottolinearla o volgerla verso il simbolo.(14)
L’Inquadratura / Il Taglio ( The Frame ). Attraverso l’inquadratura il fotografo sottopone alla nostra attenzione ciò che ritiene importante, edita significati e patterns del mondo, definisce il contesto e crea significative relazioni .(15)
I fotografi, nei primi cinquant’anni della nascita della fotografia, erano soliti stampare a contatto le lastre fotografiche, senza ricorrere a ingrandimenti, estrapolazioni o tagli poichè l’obiettivo era quello di sfruttare al massimo il formato del negativo.
Con l’avvento delle macchine di piccolo formato, e spesso anche per esigenze di committenza, si cominciò, invece, a praticare il taglio a posteriori. Il fotografo - non più vincolato al momento della ripresa - fu così libero di rielaborare l’inquadratura in fase di stampa, riservandosi di decidere, solo in un secondo tempo, cosa includere nell’immagine finale.
Tale pratica che, di fatto, permette un notevole snellimento delle operazioni di ripresa è, tuttavia, osteggiata da chi sostiene che la previsualizzazione dell’immagine debba avvenire dentro il mirino.
C’è una precisa filosofia dietro tale posizione ed è quella che attribuisce una sorta di rigore morale e di purezza dello sguardo alla pratica del fotografare.(16)
Il Tempo ( Time ). Oltre che con lo spazio, la fotografia è in stretta relazione con il tempo dal momento che ogni immagine fotografica esprime un frammento di tempo. Questa relazione - originata da cause di ordine meccanico in quanto ogni fotografia corrisponde all’apertura più o meno lunga dell’otturatore - ha acquistato, con il passare degli anni e l’evolversi del linguaggio espressivo, una valenza anche di tipo filosofico.(17)
Fin dalla nascita, la fotografia lotta con il tempo per bloccarlo, inseguirlo o indicarne il passaggio e la stratificazione. Basti pensare alle prime fotografie, alle lunghe esposizioni, alle immagini multiple di cani a tre teste o alle forme virtuali prodotte dalla continuità del movimento in una dimensione spazio-temporale. Furono proprio tali esperimenti ed incidenti tecnici a suggerire di proseguire nello studio fotografico del movimento e, successivamente, a spingere gli esponenti del fotodinamismo futurista verso la legittimazione di tali scelte espressive.
Anche se il tempo della fotografia non può mai essere un flusso, come nel cinema, il fotografo può, però, rivendicare la capacità dell’immagine di alludere al passaggio del tempo ed alle sue stratificazioni, attraverso il mosso o la sovraimpressione. Può sintetizzare più momenti in un’unica immagine rivalutando, come fatto espressivo, quello che inizialmente era stato considerato solo un errore tecnico.
La relazione con il tempo può essere espressa fotograficamente anche in altro modo, rifiutando sostanzialmente di distruggere la concretezza dei corpi e della realtà.
La concezione filosofica che sottende tale pratica può far riferimento al tempo, inteso come successione del prima e del poi, ma anche al frammento di tempo in cui si verifica la coincidenza fra il tempo del reale e il tempo della macchina fotografica.
Nel primo caso avremo la prevalenza di un atteggiamento analitico e la costruzione di una sequenza poichè il fotografo intende il tempo come una successione di momenti scientificamente registrabili, separabili gli uni dagli altri . Basti pensare al lavoro di E. Muybridge e alle immagini in cui il movimento viene congelato in una serie di fotogrammi, staccati gli uni dagli altri, che rappresentano gli istanti successivi dello spostamento del corpo.
Nel secondo caso, invece, la fotografia può riuscire a cogliere quel segmento di tempo che Henri Cartier-Bresson ha definito “l’attimo decisivo”.
Scrive Cartier- Bresson nel suo celebre saggio: La fotografia implica il riconoscimento di un ritmo nel mondo delle cose concrete.(....) Noi lavoriamo all’unisono con il movimento come se fosse un presentimento del modo in cui la vita stessa si sviluppa. Ma all’interno del movimento esiste un momento in cui gli elementi in moto sono in equilibrio. La fotografia deve far perno su questo momento e fissarne l’equilibrio.(...)(18)
Il Punto di vista ( Vantage Point ). Il punto di vista rappresenta una variabile fondamentale del linguaggio del fotografo poichè, a seconda del punto di ripresa scelto, la Realtà si trasforma in maniera impressionante.
La fotografia ha, di fatto, insegnato all’uomo che l’apparenza del mondo può essere più ricca di quello che la sua mente poteva indovinare e che le sue immagini potevano rivelare, non solo la chiarezza e l’ordine, ma anche l’oscurità o l’ambiguità.
Inclinando semplicemente l’apparecchio fotografico il fotografo può, infatti, decidere di abbandonare la normalità della visione, invertendo l’ordine delle cose; può fotografare dal punto di vista dei vermi o degli uccelli, arrivare all’astrazione o alla drammatizzazione .(19
Con la messa in crisi della visione prospettica centrale, il fotografo si libera così dall’obbligo della pura descrizione e catalogazione, privilegiando la rivelazione di strutture e forme insolite, anche se reali.(20)
Ma il fotografo ha a disposizione anche altri mezzi per aggiungere significati ad un’immagine. Tra questi -come suggeriva Roland Barthes ne “Il messaggio fotografico”(1982) - vale la pena di ricordare: il trucco, la posa, gli oggetti, la fotogenia, l’estetismo e la sintassi .(21)
Diamo, qui di seguito, una breve sintesi delle tesi esposte da Barthes nel suo celebre saggio.
Trucco
Attraverso un intervento a posteriori, di manipolazione - come quello che, nel 1951, costò l’incarico al senatore americano Millard Tyding il cui volto era stato accostato artificialmente a quello del leader comunista Earl Browder - si può incidere sul livello di denotazione dell’immagine fotografica facendo passare come semplicemente denotato un messaggio che, in effetti, è fortemente connotato.(22)
Posa
Il fotografo ha la possibilità di mettere in scena la fotografia chiedendo al soggetto di assumere un certo atteggiamento per preparare la lettura dei significati di connotazione. Viene citata, ad esempio, la fotografia che ritrae Kennedy, di profilo, con gli occhi al cielo e le mani giunte per alludere alla spiritualità e alla purezza del soggetto.
Oggetti
Gli oggetti costituiscono eccellenti elementi di significazione e spesso rimandano a significati chiari e conosciuti attraverso la simbologia o la semplice associazione di idee (biblioteca e libri alludono all’intellettuale, la penna allo scrittore, il cavalletto o i pennelli al pittore, ecc)
Fotogenia
Il fotografo, dopo aver scelto una determinata realtà, provvede ad abbellirla o sublimarla togliendo gli elementi di disturbo od utilizzando tecniche di illuminazione, impressione e stampa.
Estetismo
Nel corso del tempo i fotografi hanno espresso una propria ricerca di linguaggio. Basti pensare al pittorialismo di fine secolo e alle sperimentazioni delle avanguardie artistiche del primo Novecento.
Attraverso tali scelte espressive il fotografo colloca la propria ricerca in determinati ambiti di riferimento stilistico- culturale che, in tal modo, diventano un elemento di connotazione dell’immagine
Sintassi
Invece di accontentarsi di una singola fotografia - incapace di restituirci il passare del tempo o il movimento -il fotografo opta per la costruzione di percorsi narrativi e sequenze.
Il significante di connotazione - scrive Roland Barthes - non si trova più, allora, al livello di qualche frammento della sequenza, bensì al livello (soprasegmentale , direbbero i linguisti) del concatenamento.(23)
Testo
Accanto a questi procedimenti di connotazione dell’immagine fotografica bisogna aggiungere, di norma, anche il testo che accompagna la fotografia stampata.
Il testo costituisce - a parere di Barthes - un messaggio parassita, destinato a connotare l’immagine, cioè a “insufflarle” uno o più significati secondi.In altri termini, ed è un rovesciamento storico importante, l’immagine non illustra più la parola; è la parola che, strutturalmente, è parassita dell’immagine...è la parola che va a sublimare, a patetizzare o a razionalizzare l’immagine. (....) Altra osservazione: l’effetto di connotazione è probabilmente diverso a seconda del modo di presentazione della parola.Più la parola si avvicina all’immagine, e meno sembra connotarla(...)(24)
Per il grande semiologo la didascalia ha - ad esempio- un effetto di connotazione meno evidente che non il titolo a caratteri cubitali o il testo che accompagna l’immagine. In alcuni casi il titolo in grande può addirittura contraddire il contenuto denotativo dell’immagine in modo da produrre una connotazione compensatoria ( immagine di una cover-girl radiosa accompagnata da un titolo a caratteri cubitali di contenuto cupo ed angosciante) così come il testo può inventare un significato nuovo che viene in qualche modo proiettato retroattivamente nell’immagine, al punto da sembrare denotato.(25)
Come possiamo evincere, da queste brevi note, la fotografia è uno strumento contraddittorio, strettamente correlato alle modificazioni del pensiero e del tessuto culturale in cui viene fruito od utilizzato.
Inoltre non è detto che la sua funzione primaria sia sempre, e necessariamente, la comunicazione.
La cultura contemporanea e psicanalitica, insieme ai paradigmi più avanzati del pensiero filosofico di matrice marxista hanno, infatti, fatto emergere una altra ipotesi di lettura e di approccio al documento fotografico che, sostanzialmente, coincide con un atteggiamento di relativa svalutazione dell’apparenza sensibile in favore della ricerca delle strutture profonde.(26)
Non è un caso che Roland Barthes - dopo una vita passata ad analizzare le strutture semio-sociologiche della fotografia - pubblichi, poco prima della sua morte, un testo come “La chambre claire “ in cui arriva a scrivere:davanti a certe foto, volevo essere selvaggio, senza cultura.(27)
Nel libro l’autore invita ad un approccio di lettura intersoggettivo e quasi arcaico che, abbandonando la prospettiva semiologica, riporti il confronto e il dibattito sull’affascinante ed intrigante ambiguità dell’immagine fotografica e della sua pienezza analogica.
RICERCA ICONOGRAFICA: ISTRUZIONI PER L’USO
La fotografia è diventata così parte integrante della vita dell’uomo che, oggi, più nessuno - a parte gli addetti ai lavori - si interroga o discute sull’autenticità dell’ informazione trasmessa dall’ immagine fotografica.
Ma ancora più frequentemente succede che, con il tempo, l’immagine acquisti significati che ,magari, al momento dello scatto non aveva. Questa attribuzione di senso - come abbiamo visto - molto spesso dipende dalla cultura, sensibilità e posizione ideologica di chi guarda e dalla presenza di un codice debole dell’immagine fotografica.
Un buon iconografo deve tener conto -a nostro avviso - del dibattito teorico tracciato in queste brevi note. Deve, altresì, conoscere, profondamente, la biografia e il percorso storico - artistico dell’autore di una immagine che si appresta ad utilizzare, per evitare di compiere operazioni arbitrarie.
Ciò non significa negare una rilettura personale o una collocazione dell’immagine fotografica fuori dal contesto originario.Significa, al contrario, preoccuparsi della salvaguardia di una modalità espressiva, evitando per quanto possibile di fare violenza all’autore dell’immagine, alle sue motivazioni originarie.
Un tale atteggiamento potrebbe preservare la fotografia dall’uso strumentale cui spesso è soggetta e dalla sua collocazione arbitraria, buona per tutte le stagioni, in cui frequentemente la vediamo ridotta per scopi redazionali, politici, commerciali o pubblicitari.
E’ esemplificativo, a tal proposito, l’ articolo del settimanale “L’Express,”, pubblicato nel 1956 durante l’insurrezione ungherese, dal titolo Informazione o Propaganda, riportato da Gisele Freund nel suo libro “Fotografia e società”.
L’intenzione del settimanale era quella di mostrare come, di fronte a documenti fotografici identici, le diverse redazioni dei giornali avessero dato, invece, versioni del tutto contrastanti:
“Sotto una fotografia raffigurante un carro armato russo in una strada. Prima didascalia: Violando il diritto dei popoli all’autodecisione, il governo sovietico ha inviato divisioni blindate a Budapest per reprimere l’insurrezione. Seconda didascalia:Il popolo ungherese ha chiesto l’aiuto del popolo sovietico. Carri armati russi sono stati mandati a proteggere i lavoratori e a ristabilire l’ordine.”(28)
Con questo, ed altri esempi, l’autrice cerca di mettere in guardia il lettore contro possibili manipolazioni dell’immagine fotografica da parte delle redazioni dei giornali perchè “basta spesso un nonnulla per dare ad una fotografia un significato diametralmente opposto alle intenzioni del reporter”.(29)
Il buon iconografo deve avere, inoltre, una certa sicurezza nello scegliere e scartare il materiale visivo che solitamente visiona in grande quantità.
Per far questo deve saper riconoscere le qualità formali e tecniche di un’immagine privilegiando, comunque, sempre il contenuto o altre valenze espressive rispetto alla mera maestria compositiva.
Sul valore intrinseco della composizione, a cui tutti i grandi fotografi riconoscono un ruolo primario, così si esprime Henri Cartier-Bresson: Affinchè una fotografia sia in grado di comunicare il soggetto in tutta la sua intensità, le relazioni formali devono essere rigorosamente stabilite.(...) La composizione non è un elemento che si aggiunge a posteriori, come se fosse uno schema sovrapposto su di un materiale base: essa è invece dotata di una sua necessità, ed è impossibile separare il contenuto dalla forma.
Fare fotografie significa riconoscere - simultaneamente e in una frazione di secondo - contemporaneamente il fatto stesso e la rigorosa organizzazione di forme percepite visivamente che le dà significato. E’ mettere la testa, l’occhio e il cuore sullo stesso asse.(30)
Nel raggiungimento di tale obiettivo il fotografo può utilizzare linguaggi espressivi diversi, privilegiare focali grandangolari o medie così come aderire all’uso del mosso o della sfuocatura .
Chi si occupa di immagini sa che una fotografia “ben riuscita”non sempre, e non necessariamente, risponde a criteri di ordine, proporzione, chiarezza e concisione. Al contrario, la storia della fotografia è piena di trasgressioni, rispetto ai canoni formali dominanti, che hanno permesso al linguaggio di evolversi in più direzioni.Basti pensare alla riappropriazione della casualità da parte di un autore come Man Ray (31)o all’ “organizzazione del disordine” realizzata da un fotografo come Willam Klein che alle parole d’ordine obiettività, eleganza, misura, discrezione contrappone quelle di grana, mosso, evasione dall’inquadratura, deformazione, accidentalità.(32)
Ma più semplicemente basti pensare alle immagini sfuocate e sgranate realizzate da Robert Capa, nel giugno del 1944, durante lo sbarco alleato in Normandia. Queste immagini, più di altre, esemplificano la presa di posizione di un fotografo che decide consapevolmente di stare in prima linea e di raccontare, anche a costo della propria vita, la partecipazione ad un evento storico di rilevanza mondiale.
Di quell’evento le immagini di Robert Capa rappresentano, senza dubbio, la testimonianza visiva storicamente più pregnante, nonostante la grana, il mosso e la scarsa perizia tecnica che possono ingannare solo chi non conosce a fondo le problematiche interne a tale mezzo visivo.(33)
Se l’iconografo non ha sufficiente padronanza del linguaggio fotografico e della storia della fotografia, se la sua preoccupazione maggiore è quella di utilizzare belle immagini, senza tener conto del percorso artistico o del contesto storico e sociale in cui un autore si è trovato ad operare, si rischia di avere, come spesso succede, pubblicazioni eleganti ma mute.
I libri invece devono poter parlare, devono raccontare, contribuendo alla crescita estetica, culturale ed umana degli individui
Alla base di una buona ricerca iconografica ci deve essere, dunque, una radicata cultura generale. La cultura visiva è determinante ma deve essere integrata ed arricchita da nozioni di carattere storico, sociale ed economico.
Una delle doti che maggiormente apprezzo in chi fa questo mestiere è la capacità di saper riconoscere il significato nella naturalezza, nella fotografia apparentemente dimessa ma che - per usare ancora una volta le parole di Roland Barthes - “obbliga lo spettatore a una interrogazione violenta, lo impegna sulla via di un giudizio che egli stesso elabora senza essere intralciato dalla presenza demiurgica del fotografo”(34)
Quasi sempre, infatti, la costruzione eccessiva di un concetto o di una ipotesi, fatta per contrasti od accostamenti troppo evidenti, che scaturisce dalla voglia di esplicitare a tutti i costi un messaggio lasciano l’immagine muta.
RICERCA ICONOGRAFICA E CAMPI DI APPLICAZIONE
Chi aspira a fare l’iconografo come professione deve avere - oltre ad una solida cultura visiva - una rete capillare di informazioni e di contatti con archivi, istituzioni statali e locali, collezionisti e singoli fotografi che gli permetta di individuare, in tempi ragionevoli, il materiale interessato.
Per arrivare ad ottenere questo tipo di professionalità si consiglia, generalmente, un lungo periodo di apprendistato presso qualche istituzione o ente (museo, agenzia fotografica, studio professionale) che esplica tale attività.
E’ solo nel confronto continuo e nell’acquisizione progressiva di una certa sicurezza visiva che si impara a vagliare e selezionare il materiale con la certezza di operare in modo esaustivo, e non sommariamente superficiale, come spesso ci capita di vedere.
Alla fase di contatti telefonici e di individuazione degli archivi fotografici in cui poter cercare il materiale interessato segue, infatti, il momento decisivo del reperimento e della selezione delle immagini.
In tempi spesso brevi l’iconografo deve visionare un numero consistente di immagini e scartare con sicurezza, certo di non fare errori e di non privilegiare determinate immagini a scapito di altre, forse più intriganti o interessanti dal punto di vista storico.
E’ in questa fase che si gioca la ricchezza e la diversità di un libro rispetto ad altri.
Ed è sempre in questa fase che la ricerca iconografica deve tener conto dell’ipotesi del curatore e del progetto complessivo che sottende al volume (o mostra )che si vuole realizzare.
Se l’iconografo riesce, con il tempo, ad acquisire una certa autorevolezza in materia è auspicabile che il suo lavoro non si concluda con la selezione delle immagini ma possa affiancarsi a quello del grafico durante la fase di progettazione e costruzione del libro.
E’ opinione di chi scrive, infatti, che contenuti e forma debbano andare sempre di pari passo senza nessun tipo di concessione a manierismi e mode passeggere. Per evitare di vedere ridotte alla dimensione di un francobollo, immagini dense di particolari e significati, in nome della mera esigenza estetica si consiglia vivamente a chi si appresta a fare questo mestiere di controllare fino in fondo le fasi di applicazione del proprio lavoro.
Solo se l’iconografo riesce ad attivare un dialogo ed una stretta collaborazione con il responsabile del progetto grafico può sperare in una valorizzazione complessiva dei contenuti della sua ricerca. In caso contrario correrà sempre il rischio di veder penalizzate immagini che gli erano costate tanto in termini di reperimento.
Ma vediamo adesso, nello specifico, i diversi campi di applicazione di una ricerca iconografica.
Monografia dell’opera di un fotografo
Nel caso di una pubblicazione di questo genere è indispensabile che il ricercatore iconografico dedichi prioritariamente parte del suo tempo allo studio e all’approfondimento del percorso artistico dell’autore in questione.
Solo stabilendo delle strette relazioni con la biografia dell’autore sarà possibile arricchire la ricerca d’archivio, l’analisi delle lastre, delle pellicole e dei provini, evitando il rischio di sovrapporre il proprio gusto o la propria posizione ideologica alla progettualità del fotografo.
Uno dei primi passi da compiere, nel caso di una monografia su un fotografo, è la rivisitazione complessiva di tutte le immagini prodotte, con l’occhio bene attento alla selezione operata, all’epoca, dall’autore stesso, sia sul versante della pubblicazione che della partecipazione a concorsi fotografici o mostre.
Passando in rassegna i provini a contatto o le vecchie stampe può capitare di trovare, infatti, immagini diverse, e forse più intense, di quelle utilizzate per la pubblicazione; immagini in cui l’inquadratura originaria era stata sacrificata, all’epoca, per motivi di impaginazione o di taglio giornalistico.
Può essere utile e proficuo, inoltre, mettere insieme le immagini in sequenza cronologica o in sequenza di ambientazione per far risaltare la capacità di penetrazione di un autore o la sua continuità narrativa.
Solo quando emergerà chiaramente il comune denominatore che lega tutte le immagini dell’artista sarà possibile addivenire ad una corretta ipotesi di lettura che tenga conto degli aspetti profondi e non meramente spettacolari del lavoro prodotto.
Libro tematico
Nel caso di un libro tematico il valore descrittivo ed autonomo di ciascuna delle immagini selezionate viene a volte forzato in favore del progetto e dell’ipotesi di lettura del curatore.
La pubblicistica in materia è abbastanza ampia e sul mercato fotografico, italiano ed internazionale, si possono trovare, ogni anno, volumi tematici che tentano di raccontare un percorso storico, accostando insieme immagini di diversi autori e periodi. Cito, a puro titolo esemplificativo, tra i volumi di questo genere alcuni di quelli presenti nella mia biblioteca: Tra sogno e bisogno.306 fotografie e 13 saggi sull’evoluzione dei consumi in Italia 1940-1986; Donna lombarda.Un secolo di vita femminile; Un paese unico. Italia, fotografie 1900-2000; Il bacio; Photographie/Sculpture; Hunde? Hunde!; Fotografia e Astronomia nelle immagini degli Archivi Alinari e dell’Osservatorio Astronomico di Arcetri; Fotografia e Botanica; Occhio al cibo;ecc
Qualcuno ha scritto che si può arrivare a capire l’universo anche a partire da una goccia d’acqua: senza aver la pretesa di registrare situazioni complesse in modo sistematico questo tipo di operazione può, infatti, favorire ipotesi di lettura trasversali, suggerire significati diversi da quelli che aveva originariamente l’immagine,“rianimando ogni volta frammenti dell’immenso, in realtà forse inafferrabile archivio che la fotografia, più di ogni altra arte, instancabilmente ci offre”.(35)
La preoccupazione di una forzatura arbitraria è tuttavia uno dei dubbi che agita i sonni dei curatori come ha precisato in modo eloquente Cesare Colombo nella prefazione a “Un paese unico”: L’inizio di una ricerca fotografica avviene sempre sotto il segno dell’ansietà. Migliaia di appunti, fotocopie, appelli alla memoria personale.... che nessuna memoria di computer può ahimé sostituire. E la domanda di fondo che genera appunto dubbi, e inquietudine: sarà possibile tentare di ordinare secondo una linea ‘attuale’ di coerenza narrativa, decine o centinaia di fotografie alla cui origine stanno motivazioni diversissime, in molti casi non più appurabili?(36)
L’interrogativo posto da Cesare Colombo ci torna utile, in questa sede, per avviare una riflessione sulle modalità con cui l’idea di fondo che sottende al progetto si deve esplicitarsi visivamente.
E’ necessario, innanzitutto, a nostro avviso, che il curatore abbia chiaro ‘che cosa’ intende raccontare, per poter attingere dal grande archivio della fotografia e restituirci attraverso una scelta, giustamente arbitraria, la sua visione del mondo e della Storia.
Scrive Roberta Valtorta, a tal proposito: Ciò che guida un racconto - dunque la nuova comunicazione che nasce dalla selezione operata sul grande archivio per dar forma ad un più piccolo, mirato mosaico - è, sempre, “che cosa” si intende raccontare. Al comando del che cosa, le fotografie, siano esse preziose immagini di un professionista o di un artista oppure figurine delle quali nel tempo si è persa conoscenza dell’autore, prenderanno posto l’una accanto all’altra, indicheranno interrelazioni e significati, definendo un “come”.(...)
Una narrazione attraverso fotografie si esprime sempre in una addizione di “esempi” e, per quanto ogni fotografia viva di una sua assoluta unicità che porta con sé una serie di specifiche, irripetibili informazioni, alcune fotografie si prestano più di altre ad essere esempi. I motivi per ogni immagine sono molti: dalla bontà del suo stato di conservazione, in assenza del quale anche la comunicazione è compromessa, alla specificità della tecnica con la quale è stata realizzata, alla sua ricchezza informativa, al suo contenuto estetico considerato in rapporto agli stili presenti in un’epoca data, alla sua diffusione o rarità rispetto alla situazione rappresentata, alla novità che essa costituisce se paragonata ad immagini coeve oppure, per converso, alla sua alta rappresentatività rispetto ad immagini ad essa simili, alla maggiore o minore confrontabilità con altri documenti, che significa la possibilità di una quanto più completa lettura e decifrazione.(37)
La mancanza di un’idea forte e coraggiosa, è colpevole, nella maggior parte dei casi, dell’omologazione e appiattimento culturale cui siamo tristemente abituati.
Per contrastare tale appiattimento è fondamentale che si sappia raccontare con le immagini e si sappia metterle in relazione con altre forme di espressione visuale.
Se non si è in grado di farlo - o se non ci sono le risorse economiche per poterlo fare ad un certo livello - bisogna assolutamente evitare di intraprendere iniziative del genere: non ha, infatti, alcun senso continuare a produrre libri incapaci di suscitare riflessioni e approfondimenti, libri che si offrono come una semplice collazione di immagini simili sull’argomento e che, quindi, sono destinati a catturare solo per breve durata la sensibilità estetica e l’intelligenza del lettore.
Monografia storico- fotografica su un territorio
Negli ultimi anni la vocazione municipalistica ha dato luogo ad una vasta proliferazione di ricerche storico-fotografiche intese a riscoprire ‘come eravamo’.
Purtroppo questo tipo di operazioni spesso non va oltre un erudito localismo poichè il metodo d’indagine e il tipo di domande che l’iconografo e lo storico pongono alla fonte - cioè al documento visivo - non sono tali da determinare la qualità dell’operazione storiografica.
Prescindendo da un’analisi complessa della fonte fotografica e dalle interazioni esistenti all’interno del processo di comunicazione si finisce, infatti, per favorire quel processo di ‘mitizzazione’,che tende a rileggere il passato come eroica mitologia.La fotografia - come sappiamo- non si limita, invece, a trasmettere il proprio significato letterale ma pone in essere un processo di significazione seconda che si sviluppa attraverso la sua fruizione.
Lo storico e l’iconografo non devono, perciò, accettare passivamente il valore ideologico dell’immagine ma chiedersi come e perchè abbia avuto luogo un certo tipo di lettura.
E’ in quest’ambito che si gioca la correttezza scientifica del progetto: solo tenendo fede a certi criteri, e sfuggendo alle soluzioni retoriche e celebrative, si potrà evitare di far coincidere, forzatamente, la storia di un luogo con la storia che le immagini raccontano.
Come è noto la storia e le trasformazioni di un territorio sono spesso il frutto di modificazioni lente, talvolta impercettibili. E’ indispensabile, perciò, che l’iconografo, al momento di iniziare la ricerca storico-fotografica, si colleghi ad uno storico del territorio per poter definire l’itinerario visivo ed approfondire lo studio della struttura territoriale sotto il profilo storico, economico e culturale.
La ricerca non dovrebbe costituire, infatti, un contributo episodico, meramente celebrativo, ma collocarsi, invece, come stimolo per approfondire le specificità e le ragioni di esistere di un territorio.
L’intento di una monografia storico-fotografica su una città od un territorio dovrebbe essere, prioritariamente, quello di far conoscere ciò che è stato e non è più, consentendo un confronto ed una riflessione sui cambiamenti intervenuti.
Monografia aziendale
I volumi che ripercorrono la storia di una azienda tendono, generalmente, a mescolare varie tipologie di immagini: manifesti, edizioni e materiali di propaganda, fotografie.
L’eterogeneità dei materiali e la varietà dei mezzi espressivi comporta, naturalmente, rischi di frammentarietà e dispersione a cui l’iconografo può ovviare solo con una costante e forte attenzione alla storia che caratterizza l’immagine dell’azienda.
Il rischio può trasformarsi in sfida vincente se l’attenzione alle interrelazioni fra i diversi strumenti visivi riesce a trasformarsi in sguardo attento sull’ evoluzione delle tecniche, dei mezzi , dei contenuti nonchè dei costumi sociali e civili del nostro tempo.
Questo tipo di editoria ha prodotto, nel tempo, risultati apprezzabili poichè ha potuto usufruire delle cospicue risorse economiche di cui generalmente questo settore dispone ed utilizzare diverse professionalità e diversi sguardi di lettura.
Libro scolastico
L’uso della fotografia nell’editoria scolastica è ancora subordinato ad esigenze illustrative e documentarie. Solitamente le immagini corredano i testi ma con scarsa attenzione all’oggetto fotografia in quanto tale. Basti pensare che le didascalie relative alle immagini utilizzate non riportano quasi mai il nome di chi ha scattato la fotografia, neppure quando siamo in presenza di un grande autore.
Tale atteggiamento riperpetua un vecchio pregiudizio nei confronti del mezzo fotografico e non aiuta certo la fotografia ad acquistare il rispetto che le si deve. E’ perciò indispensabile che redattori e ricercatori iconografici si abituino, ed abituino i fruitori, a corredare le immagini di tutti i dati originari (per lo meno l’autore e la data di esecuzione), salvaguardando in tal modo il suo valore informativo.
Nel caso in cui l’iconografo debba realizzare volumi di storia dell’arte è altresì necessario che impari a padroneggiare il vocabolario tecnico della fotografia e sappia riconoscere le qualità di una immagine (saturazione o meno dei colori, uso appropriato dell’illuminazione, eccessivo contrasto, ecc) e le sue possibilità di utilizzo.
Intervista a Daniela Tartaglia in Professione Fotografo, Editrice Il Castoro, Milano 2001
Come definirebbe il ricercatore iconografico?
Ricercatore iconografico è un termine molto generico che spesso sta ad indicare professionalità e competenze fra loro molto diverse. Anche se,apparentemente, il fine ultimo è quello del reperimento delle immagini, ritengo che ci sia una bella differenza tra fare il picture-editor per una rivista o un quotidiano o, viceversa, esplicare tale ruolo in una grande agenzia di distribuzione di immagini fotografiche
Ci sono competenze naturalmente diverse. Nella mia esperienza quasi ventennale ho constatato che questo lavoro si può svolgere con varie modalità, con attitudini ed aspettative differenti. Ci sono persone che si improvvisano ricercatori iconografici e tendono a reperire in tempi brevissimi il materiale che è stato loro richiesto, pensando che sia solo questa
la funzione che devono assolvere. In realtà, anche se la capacità di individuare in tempi ragionevoli il materiale fotografico necessario a comporre un libro, una mostra o un servizio redazionale è un elemento essenziale del mestiere - poichè bisogna far appello alla propria memoria visiva, alla capacità di organizzazione delle proprie conoscenze, alla propria mailing list - direi che questa non è tutto. Nel reperimento delle immagini una delle doti maggiori sta nel capire immediatamente il valore connotativo di un’immagine, intrevedendo in essa una rete di possibili significati e relazioni.
Il ricercatore iconografico deve sapere o intuire cosa vuole il suo committente, essere in qualche modo dentro la filosofia del progetto per cui lavora, chiedersi in che modo le sue competenze possano arricchire una pubblicazione.
Purtroppo la necessità di soddisfare in tempi sempre più brevi la richiesta pressante di immagini ha fatto sì che il mestiere si sia ridotto, per alcuni, alla ricerca dell’immaginetta, della figurina.
E’ questo uno dei motivi principali che mi ha spinto a lavorare come fre-lance, a rifuggire, in modo più o meno consapevole, l’inserimento in una grande struttura, per poter soddisfare ogni giorno l’ aspirazione ad essere l’ eterna studiosa e rendere possibile l’incontro, la collaborazione, con persone che sappiano sfruttare al meglio le mie competenze e mi chiedano di pensare, non solamente di reperire immagini in tempi brevi.
Ho avuto l’ opportunità, per alcuni anni, di operare in qualità di ricercatrice iconografica con Cesare Colombo, organizzatore e curatore di importanti mostre fotografiche. E’ stata un’esperienza interessante, da cui ho imparato molto e che ha contribuito a chiarirmi le idee su cosa non si deve assolutamente perdere di vista.
Ho lavorato sodo, spesso in lotta con il tempo, per poter consegnare il materiale necessario ma sentendo, sempre, di fare qualcosa che in qualche modo mi apparteneva poiché la ricerca iconografica si sviluppava su un’ idea e su un progetto che ben conoscevo, che condividevo, totalmente o in parte. C’era un apporto critico notevole, due intelligenze che si confrontavano, che collaboravano attivamente.
Un’altra esperienza interessante sotto il profilo professionale l’ho avuta all’interno di case editrici scolastiche (Edizioni scolastiche Bruno Mondadori e Sansoni per la scuola) che hanno particolarmente a cuore l’apparato iconografico e puntano sulla qualità della comunicazione visiva. Lì ho avuto la possibilità di crescere, di discutere certe scelte con il redattore, con il grafico, con l’ art director per capire la filosofia e la finalità del libro e far sentire la mia voce, con suggerimenti e sollecitazioni.
Come si può evincere da questa breve chiacchierata direi che esistono diversi modi di fare questo mestiere e differenti aspettative: probabilmente il ricercatore iconografico, di grande professionalità e grandi doti di autonomia, dopo alcuni anni rifiuta il solo ruolo esecutivo, cercando di affermare, sempre in accordo con la linea editoriale, la propria capacità
creativa all’ interno del progetto.
Quali le qualità?
Il problema, fondamentalmente, è quello di avere una certa sicurezza e autonomia e, dunque, possedere una conoscenza e una buona cultura di base, perché bisogna essere capaci di motivare sempre le proprie scelte. Inoltre, è necessario avvalersi di una solida cultura visiva, di molti contatti con archivi, fotografi, collezionisti, musei e istituti, costituirsi una sorta di mailing, di schedario, ed avere, in più, una forte capacità organizzativa. E’ indispensabile inoltre una certa versatilità e la capacità di saper approfondire, anche dal punto di vista teorico, gli argomenti che si è chiamati ad illustrare. Deve conoscere, a mio avviso, la storia della fotografia, possedere un valido impianto teorico, cioè aver
presenti le problematiche inerenti alla semiologia, alla lettura dell’ immagine.Solo così si può salvaguardare la propria capacità creativa.
Cosa intendi per capacità creativa?
Secondo me, questo è un importante elemento creativo che si gioca nella selezione delle immagini. In tempi brevissimi l’iconografo deve visionare un numero consistente di immagini, scartare con decisione, certo di non fare errori, avendo chiaro qual è l’obiettivo finale, quali le richieste del committente, quale la filosofia del progetto. Deve essere sicuro e saper rispondere delle proprie scelte. In breve tempo viene messa in gioco la sua cultura,la sua capacità intellettuale. La sola cultura, a volte, non è sufficiente, e un valido aiuto può venire, allora, dall’intuizione, dal sapere che è necessario anche giocare per contrasti, capire che ci sono immagini che
possono in futuro esser utili e, quindi, vale la pena di selezionarle.
Qual’è l’obiettivo?
Riuscire a produrre libri veri, stimolanti e capaci visivamente di far pensare, di suscitare reazioni, dubbi; non mi interessa fare libri esteticamente ben confezionati ma ‘muti’, dove l’immagine è ridotta a semplice figurina.
A livello scolastico esiste un comune percorso formativo?
Per quello che ho potuto verificare, non esiste una vera e propria figura professionale. Nella mia vita mi è capitato di incontrare e conoscere persone provenienti da ambiti diversi, ex-studenti di scuole di fotografia, oppure redattori laureati in storia dell’ arte o in lettere che ad un certo punto, all’ interno della casa editrice, per motivi organizzativi, sono stati
posti nel ruolo di iconografi; altri erano figli di fotografi, altri ancora critici, docenti di fotografia o studiosi del settore che svolgevano, come nel mio caso, anche quest’attività.
Io mi interesso da vent’anni di fotografia - direi quasi a 360 gradi -ma non sono specializzata solo nella ricerca iconografica perché sono solita alternare ad essa l’ attività di fotografa e di docente di storia della fotografia.
Se dovessi dare un consiglio alle persone decise ad intraprendere quest’ attività, direi di orientarsi verso scuole di fotografia o facoltà universitarie con un indirizzo volto allo studio dell’ immagine. Anche se tale percorso non è proprio così scontato e molto dipende dagli incontri e dalle passioni che uno ha, che uno riesce a sviluppare, dalle proprie ossessioni.
Io - ad esempio- sono laureata in Scienze Politiche, con indirizzo storico, ma è da quando frequentavo l’università che mi occupo a tempo pieno di fotografia.Non pensavo, però, allora, di cambiare facoltà nè che tale passione sarebbe diventata un giorno una scelta di vita.
Innanzitutto è importante avere ed arricchire la propria cultura di base, non solo visiva, per poter stabilire delle relazioni ed allargare l’area della propria conoscenza ed intuizione. E poi, naturalmente, vedere mostre, andare spesso in libreria, cercando di non sfogliare solamente i libri, ma anche di leggerli. Un buon iconografo, ad esempio, non può fare l’errore di proporre un’immagine senza conoscere la filosofia o la posizione politica e morale espressa dal suo autore, non può prescindere dal contesto della sua realizzazione.Spesso ho visto immagini utilizzate a sproposito, solamente perché intriganti o d’impatto.
L’ aggiornamento è fondamentale, ma, piuttosto che divorare tutto in maniera acritica, riempiendosi solamente gli occhi, credo che sia preferibile organizzare la propria cultura, incanalare il proprio sapere, digerire quello che si assimila. Un altro aspetto importante in questo lavoro è quello della sfida, del cercare; sono doti fondamentali la curiosità e l’investigazione.
Fotografia ed inconscio
Non si puo vivere senza visione. Noi siamo tutti - per dirla con James Hillman - "pazienti dell'immaginazione"
Difficilmente avrei potuto trovare parole piu adatte di quelle usate dalla nota psicanalista junghiana Lella Ravasi Bellocchio, per esprimere la forza e il fascino presenti nelle immagini di Alessandra Capodacqua.
Sospese in una dimensione magica e nostalgica le immagini fotografiche qui presentate rafforzano, ancora una volta, la convinzione profonda che le potenzialità della fotografia stiano nella capacità visionaria ed ossessiva di chi usa tale mezzo di espressione.
Fotografia significa etimologicamente 'scrittura di luce' ma pochi sanno indagare questo mezzo per far luce sul proprio inconscio, per curare amorosamente la propria immaginazione.
Interessata da sempre ad una fotografia in cui l'attenzione per le tracce ed i segni della memoria è predominante rispetto alla trascrizione fedele del reale, Alessandra Capodacqua ci trascina, invece, letteralmente nel regno dell'inconscio e dell'immaginazione," nel mondo all'alba della sua prima esplosione quando esso è ancora l'esistenza stessa e non ancora l'universo dell'oggettività"( Foucault /Sogno ed esistenza)
L'ambiguità della visione e la restituzione insolita di forme ed oggetti conosciuti - in certo qual modo favorite dall' utilizzo del foro stenopeico -dialogano magistralmente con la luce che si insinua, si spande, lambisce le superfici fino a diventare essa stessa Forma.
I contorni sfuggono, si dilatano e gli oggetti sembrano quasi voler fuggire dalla rigidità imposta loro dalla struttura materiale che li configura.
Le lunghe esposizioni e le inquadrature ravvicinate rafforzano l'ambiguità delle forme e i rapporti insoliti che si creano e si stabiliscono fra gli oggetti.
A tratti la materia pare tremare, dipanarsi in scariche di luce, voler fuggire dal nucleo di appartenenza per diventare pura radianza.
Le immagini di Alessandra Capodacqua hanno il grande merito di condurre colui che guarda sul terreno del 'non detto' e di favorire, in tal modo, un incontro che si gioca nell'ambito dell'intuizione e dell'emozione.
La fotografia-fin dalla nascita-per natura e statuto produttivo ha dovuto fare i conti con la caparbietà del referente, con la pienezza analogica che ha ha finito per spostare l'attenzione più sul contenuto imitativo che non sul valore connotativo dell'immagine fotografica.
Ancorata alla sua presunta oggettività la fotografia è così rimasta, per lungo tempo, bloccata al livello della pura denotazione quasi fosse irrilevante capire il percorso con cui il fotografo poteva arrivare ad aggiungere significato.
E' solo con l'emergere di un altro tipo di approccio, più attento alla ricerca delle strutture profonde e alle modificazioni del pensiero e del contesto culturale, che la fotografia comincia ad essere usata ed indagata come strumento di significazione, favorendo in tal modo il radicamento e l'evoluzione di un codice linguistico
Un grande contributo, in tale direzione, è stato sicuramente dato dalle avanguardie artistiche del primo Novecento e dallo sviluppo della cultura psicanalitica che, focalizzando la ricerca sul terreno delll'indagine piuttosto che su quello della rappresentazione, hanno,
di fatto, spostato l'attenzione dal prodotto artistico come 'oggetto' alla progettualità che sta alla base del lavoro dell'artista, lasciando in tal modo spazio ad una interpretazione più aperta ed attiva dell'opera d'arte.
Il radicarsi di tale consapevolezza ha finito per concedere spazio a differenti modi di accostarsi al soggetto, che non poco hanno contribuito ad una definizione più libera e laica dell'opera d'arte fotografica.
Unico criterio di selezione, in tanta libertà, la capacità dell'autore di indagare ed approfondire la ricerca sul linguaggio espressivo utilizzato, la capacità di leggere ed interpretare l'ambiguità della percezione, di produrre immagini generate da una visione critica del mondo oppure di pervenire alla scoperta di sé.
Indagare ed interpretare significa utilizzare qualsiasi approccio- anche il realismo e la precisione analitica del mezzo fotografico -per far emergere le potenzialità della visione, l'ossessione di un percorso, la reiterazione dello sguardo,
E' qui che si gioca la differenza tra chi si limita ad osservare ed imitare e chi invece tenta di dire, di andare 'otre', di usare il mezzo fotografico come strumento di conoscenza del mondo e di sé.
La ricerca fotografica di Alessandra Capodacqua si muove con sicurezza in questa direzione.
Il fascino del suo lavoro è da ricercarsi nella capacità dell'artista di rinnovellare e restituire la magia che certamente l'ha posseduta al momento della creazione e di lavorare, in tal modo, sulle potenzialità evocative della fotografia.
Daniela Tartaglia
2002
E' l'immagine fotografica dell' immutabile Vesuvio, con la storica eruzione del 1888, ad aprire emblematicamente questa sezione e a permetterci di soffermare la nostra attenzione, non solo su alcune caratteristiche intrinseche a quasi tutta la fotografia dell' Ottocentoma, anche e soprattutto, sulle ragioni profonde che tutt'oggi ancorano il nostro sguardo all'immediatezza documentativa e all' accattivante veridicità prospettica di tali immagini.
Oggi più che mai siamo pienamente consapevoli che la caparbietà del referente ed il contenuto imitativo presente in queste immagini ripropongono l'accattivante assioma che per lungo tempo ha condizionato il nostro modo di vedere e valutare il mondo circostante, perpetuando quel facile culto della natura non purificata, non interpretata dall'immaginazione, in cui Baudelaire vedeva, già nel 1859, un segno evidente di generale abbassamento
(C. Baudelaire, Poesie e prose, Mondadori, Milano, 1973). Ma per quanto illusorie o stereotipate, le immagini realizzate dai fotografi dell'Ottocento conservano un grande fascino che, in gran parte, deriva dalla memoria di un passato vagheggiato ma ormai scomparso per sempre, dal ricordo di una Italia bellissima e metafisicamente vuota, sospesa nel tempo, dissolta ma ancora capace di rinnovellare il mito e la nozione stessa del viaggio.
L'aura di fisionomie antecedenti alle deturpazioni e alle devastazioni del mondo contemporaneo spiega tuttavia solo in parte la fascinazione esercitata ancora prepotentemente da queste immagini.
Indubbiamente il loro potenziale informativo contribuisce non poco a mantenere vivo il nostro interesse e a rimarcare le grandi potenzialità della fotografia nella sua lotta per fermare il tempo. La fotografia riesce ancora - come sosteneva nel 1856 il noto pubblicista francese Ernest Lacan - a contrapporsi al "grande devastatore", a ricomporre e rendere immortali i monumenti che rischiano di andare in rovina: il tempo , le rivoluzioni, le convulsioni terrestri possono distruggerli fino all'ultima pietra, ma essi vivono ormai nell'album dei nostri fotografi.2 (E.Lacan, Esquisses photographiques à propos de l'Exposition universelle et de la guerre d'Orient, Grassart, Parigi, 1856 citato in J.C. Lemagny,/A. Rouille, Storia della fotografia, Sansoni Editore, Firenze, 1988).
Ma né il fascino della testimonianza struggente e romantica né il semplice bisogno di ritrovare un momento di rigore visivo all'interno della miriade di segni prodotti dalla civiltà contemporanea spiegano perchè non riusciamo a distogliere lo sguardo da queste immagini.
E' qualcosa che va oltre, qualcosa che ha a che fare con il Tempo inteso in senso metafisico e con una sorta di contemplazione amorosa nei confronti del paesaggio.
I fotografi dell'Ottocento, pur nella loro smania catalogatrice che ci consegna immagini rigorosamente frontali e nitide, sapevano infatti sicuramente coltivare un atteggiamento contemplativo nei confronti dell'oggetto fotografato , una meraviglia, uno stupore ed un'unitarietà che derivano dalla intuizione prospettica dello spazio nella sua forma simbolica ma anche, e soprattutto, dalla pazienza con cui alimentavano lo sguardo per avvicinarsi a comprendere la complessità del paesaggio.
I lunghi tempi di esposizione impedivano, è vero, di registrare il movimento e l'animazione delle città, consegnandoci così architetture immobili, sospese nel tempo, ambientate in uno spazio definito scenograficamente ma assai innaturale.
Ma, pur essendo strettamente definita dalla tecnica fotografica, la sintassi linguistica da loro utilizzata faceva ricorso ad un'attitudine complessa, articolata, capace di dare uguale dignità e valore ad ogni elemento della rappresentazione.
Il grande fascino che la fotografia dell'Ottocento esercita ancora oggi sui contemporanei - si pensi alle opere di Robert Adams e dei NuoviTopografi americani - sta proprio in questa capacità di "stare a distanza" per rendere giustizia all'oggetto rappresentato, alle sue implicazioni con il silenzio per ricomporre, parallelamente alla natura, un ordine del paesaggio.
Consapevolmente o inconsapevolmente tali immagini riescono a ristabilire, ancora oggi, il contatto con una nozione del tempo che sembra ormai non appartenerci più e che desideriamo, in qualche modo, recuperare.
Con l'avvento del XX secolo la fotografia perde rapidamente queste complesse implicazioni per confrontarsi sempre di più con le modificazioni del tessuto sociale, con la scienza, l'antropologia e la nascita della psicanalisi. Scrive Paolo Mantegazza, antropologo e libero pensatore di fine Ottocento: La fotografia possiede un altro pregio preziosissimo, quello di essere democratica. (...). Benediciamo dunque la scienza che allarga l'orizzonte all'occhio umano e concede al cuore di tutti ciò che una volta era privilegio di pochi( cit. in Scritto con la luce. Fotocine in Italia 1887-1987, a cura di C. Colombo,Electa, Milano, 1987 ).
Alle immagini di Alinari, Sommer, Brogi, Gilletta si susseguono e si contrappongono ora le animate visioni urbane realizzate dai dilettanti che possono contare, grazie alle innovazioni tecniche, su apparecchi portatili di piccolo formato, su lastre alla gelatina ai sali d'argento di uso immediato e successivamente su pellicole in rullo, fabbricate industrialmente e facili da usare.
E' indubbio che la nascita e lo sviluppo dell'industria fotografica abbiano avuto notevoli ripercussioni sulla evoluzione del linguaggio fotografico, permettendo ai fotoamatori ed agli stessi professionisti di svincolarsi da preoccupazioni di tipo estetico, per realizzare invece documenti spontanei sulla vita familiare e sociale del tempo. Ma tale cambiamento di rotta non sarebbe stato possibile se un nuovo concetto di verosimiglianza - quello dell'istantanea - non avesse trovato una corrispondenza profonda nel contesto economico e sociale.
L'architettura e il paesaggio smettono infatti di essere i veri protagonisti dell'immagine e diventano un palcoscenico su cui gli uomini e le donne del Novecento mettono festosamente in scena la loro "commedia umana".
Un benessere ed una civiltà senza precedenti fanno così da sfondo ad ascensioni in mongolfiera, viaggi, gite in barca e in montagna, balli e vacanze al mare, con cui la borghesia dei commerci e delle professioni, unitamente al nuovo ceto medio degli insegnanti e degli impiegati, celebra l'era operosa e pacifica della Belle Epoqué.
La fotografia diventa infatti lo strumento per eccellenza con cui immortalare il proprio passaggio nel mondo e il proprio ruolo sociale.
Diventando appannaggio di molti, la produzione e la fruizione di immagini finiscono però per modificare profondamente l'immaginario collettivo e lo stesso concetto di esperienza.
Adesso, non sono più soltanto gli artisti a produrre immagini: le 'rappresentazioni del mondo' che vengono diffuse dalla fotografia non sono più, come un tempo, frutto di una forte selezione sociale, da parte di una classe socialmente e culturalmente omogenea. La circolazione allargata di stimoli sensoriali ed intellettivi, esterni all'esperienza personale - grazie alla fotografia e poi al cinema - contribuirà in breve alla liberazione di grandi masse di persone da quella che i sociologi definiscono la "tirannia" dell' esperienza individuale.
Ospitata in maniera sempre più consistente sulle pagine delle riviste, la documentazione fotografica avrà un impatto sociale paragonabile solo a quello introdotto dal procedimento di stampa di Gutenberg.
L' incidenza sarà tale da orientare antropologicamente e culturalmente l'esistenza di enormi masse di persone, arricchendo 'il villaggio globale' di livelli di universalità e di omogeneità mai raggiunti ma, nel contempo, modificando profondamente la funzione e la qualità delle fonti di produzione dell'immaginario collettivo.
Daniela Tartaglia
L’ISTITUTO AGRICOLO COLONIALE E LE SUE ORIGINI
La storia della Fototeca corre parallela a quella dell'Istituto Agronomico per l'Oltremare – costituito il 21 aprile 1904 per volontà dell'agronomo fiorentino Gino Bartolommei Gioli con la denominazione di Istituto Agricolo Coloniale - in quanto l'attività per la valorizzazione agricola delle colonie, cui l'Istituto sembrava attribuire un valore fondamentale per la risoluzione della disoccupazione italiana, non poteva prescindere dall'utilizzo della fotografia come elemento documentale per eccellenza.1
E' utile ricordare - ai fini di una maggiore comprensione della storia della Fototeca - che l'Istituto Agricolo Coloniale, fin dalla sua inaugurazione ufficiale2 nell'Aula Magna del R. Istituto di Studi Superiori (Firenze, 22 gennaio 1907) e, nonostante le difficoltà iniziali, si pone essenzialmente come obiettivo primario quello della formazione di agronomi e tecnici agrari, con particolare attenzione proprio al perfezionamento e alla specializzazione in agricoltura coloniale.
Per diffondere la conoscenza degli scopi e dell'azione dell'Istituto, ma altresì per raccogliere informazioni studi e notizie svariate nel campo dell'agricoltura coloniale,3 i membri della Commissione Unica incaricati dell'attuazione del progetto si adoperano, in quegli anni, per ottenere l'adesione degli enti locali e delle competenti autorità governative attraverso un'efficace azione di propaganda. Tale azione si esplica promuovendo una nutrita serie di conferenze su vari argomenti di carattere agricolo coloniale,4 ma soprattutto attraverso la fondazione di un bollettino dell'Istituto "L'Agricoltura Coloniale" che, a partire dal 1907, comincia a funzionare come cassa di risonanza di queste problematiche.
La prima sede, se pur provvisoria, del nascente Istituto è dunque situata in piazza S. Marco 2, perché è nell’aula di Botanica del R. Istituto di Studi Superiori che avrà luogo, di norma, il ciclo di conferenze tenuto da noti e competenti Professori che da tutta Italia confluiranno a Firenze.5
Successivamente – grazie anche all’aiuto e ai contributi finanziari del Governo dell’ Eritrea, del Ministero dell’Agricoltura e del Municipio fiorentino - l’Istituto trova una sede più consona agli scopi che si è prefisso, insediandosi negli splendidi locali concessigli dal Comune di Firenze e facenti parte del Villino posto nel mezzo del parco delle Cascine, a pochi minuti di distanza dalla città, a cui è riunito col tram elettrico.6
L’insediamento dell'Istituto Agricolo Coloniale nei locali delle Cascine, a Piazzale del Re, termina nell'autunno del 1908 con il trasporto e l'ordinamento di tutto il materiale nonché con la classificazione e sistemazione dei prodotti coloniali nel Museo agrario coloniale, ospitato nella bellissima galleria della Palazzina.7
La nascente Istituzione usufruisce quindi di vari aiuti ed ospitalità. Tra le più importanti quella della "R. Scuola di Pomologia, orticoltura e giardinaggio," che concede all'erigendo Istituto l'utilizzo di un terreno attiguo su cui costruire una prima grande stufa per la moltiplicazione e la conservazione di piante economiche proprie dei paesi caldi.8Grazie alla tenacia e alla "lungimirante" visione di esploratori e scienziati africanisti quali G. Bartolommei Gioli, P. Villari, P. Barbagli, O. Beccari, L. Franchetti che, in tempi non certo favorevoli all'idea coloniale, si attivano per "formare abili capi coltivatori pei paesi di clima tropicale e sub tropicale i quali potessero alla loro volta costituire un buon elemento dirigente della grande massa della nostra emigrazione, sottraendola a quello stato di inferiorità cui oggi essa è obbligata",9 l'Istituto inaugura così la sua vocazione e funzione didattica.
E' del 1908 l'attivazione dei corsi - tra cui il più importante quello di agricoltura coloniale tenuto dal Dott. Guido Mangano - a cui s'iscrissero 11 alunni effettivi ed 1 uditore.10
Ed è per supportare adeguatamente la preparazione dei suoi allievi che l'Istituto si pone, fin dall'inizio della sua attività, l'obiettivo di dotarsi del necessario materiale didattico e dimostrativo per quantità e qualità, così da farlo diventare di pratico aiuto all'insegnamento delle varie materie.11
Fotografie, diapositive e stampe, complessivamente già in numero di circa 100012 si aggiungono al migliaio di volumi e alle oltre cinquecento miscellanee che, alla data del 1910, sono in possesso della Biblioteca dell'Istituto e in procinto di essere schedati per materie.
Trasformato in Ente Morale con Regio Decreto 26 Giugno 1910, l'Istituto continua la sua attività di incremento delle raccolte museali che - oltre dal conferimento di veste giuridica e personalità morale - è resa possibile dagli aumenti di contributo concessi dal Ministero dell' Agricoltura e dal Ministero degli Esteri, dall' aiuto del governo Eritreo e delle locali Camera di Commercio e Cassa di Risparmio.13
L’INSEDIAMENTO A PALAZZO PONIATOWSKY-GUADAGNI
L’insediamento nella nuova sede di Palazzo Poniatowsky-Guadagni, a metà strada fra l'Istituto Botanico e la R. Scuola di Pomologia,14 avvenuto attorno al 1909, segnerà una tappa fondamentale per l’Istituto Agricolo Coloniale in quanto consentirà il radicamento e lo sviluppo della nuova istituzione attraverso una migliore distribuzione degli uffici ed un più soddisfacente collocamento del materiale in progressivo accrescimento.15
Nei documenti da noi consultati, relativamente agli anni dell'insediamento nella nuova sede, manca sempre il riferimento all'ubicazione esatta. Talvolta è presente l’indicazione Viale Principe Umberto, oppure vengono mostrate le immagini della facciata e dell'interno senza mai far riferimento specifico allo storico palazzo, fatto costruire nel 1842, su progetto del Poggi, dal principe polacco Giuseppe Poniatowsky e acquistato poi, nel 1864, da Luisa di Francesco Lee, moglie del Cav. Donato Guadagni.16
Solo in un documento del 1935 "Relazione sulla gestione commissariale 1930-1935 a S.E. il Ministro delle Colonie", il riferimento è esplicito e recita così:
L'Istituto, fino dalla sua fondazione, trovò posto nell’ex Palazzo Guadagni concesso gratuitamente dal Comune di Firenze. Dai pochi locali messi a sua disposizione nei primi anni di vita, è passato gradualmente ad occupare tutto lo stabile. E’ stata, questa, una dimostrazione insigne del costante, vigile interessamento alle sorti del nostro Ente, da parte del Comune di Firenze, il quale oltre a concedere l’uso gratuito dei locali, ne ha altresì assunto su di sé la manutenzione e, compatibilmente con le sue possibilità, le migliorie e l’ampliamento.17
Una ulteriore informazione si ricava dal testo con cui Armando Maugini, collaboratore di Bartolommei Gioli fin dal 1912 e poi Direttore dell’Istituto Agricolo Coloniale Italiano dal 1924 al 1964, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Istituto, rinnova sulle pagine della “Rivista di agricoltura subtropicale e tropicale” il ricordo di tali esordi:
I primi passi dell’Istituto furono compiuti utilizzando quale sede alcuni locali delle Cascine. Ma nel 1912, quando io mi trasferii a Firenze, l’Istituto era sistemato nel Palazzo Guadagni, a Porta a Prato ed occupava il primo piano ed il mezzanino. Al primo piano vi erano la direzione, le aule scolastiche, la biblioteca, la sala delle conferenze, un museo di prodotti tropicali, alcuni studi e il laboratorio di chimica; nel mezzanino si trovavano gli studi dei pochi tecnici che formavano allora i suoi quadri.18
Una possibile ragione di tale silenzio può risiedere nel fatto che lo storico palazzo, situato sul piazzale di Porta a Prato, cambia spesso di proprietà e solo nel 1920 diventa stabilmente di proprietà del Comune di Firenze.19
Da alcuni documenti raccolti in ordine sparso e, soprattutto, dalla "Relazione morale sull'attività dell'Istituto nell'esercizio 1913-14", tenuta dall'allora direttore Dott. Gino Bartolommei Gioli al Consiglio d'Amministrazione, emerge con chiarezza un dato illuminante circa la consistenza, già in quegli anni, della raccolta di materiale fotografico utilizzato per fini didattici e come supporto documentario alle missioni e viaggi di studio nelle colonie italiane.
La struttura della futura Fototeca è già infatti in gran parte delineata: le 2500 diapositive per proiezioni luminose che, a quella data, costituiscono il nucleo del materiale didattico sono ordinate per autore, materia e paese per agevolarne l'uso da parte dei conferenzieri e degli insegnanti che possono valersene mediante apparecchi da proiezione fissi e mobili, posti nelle varie aule.20
Biblioteca, Museo e collezioni iconografiche (tavole, incisioni, fotografie, stereoscopie e film) sono fra loro strettamente correlati poiché agevolare la consultazione delle opere, delle pubblicazioni e del
materiale da studio è uno degli obiettivi principali che il nascente Istituto si pone.
21
Grazie ai servigi disinteressati di alcuni valenti tirocinanti, ma soprattutto grazie all'abnegazione e capacità di gestione rivelata dai pochissimi funzionari stipendiati - si pensi che nel 1910 il Dott. Oberto Manetti, oltre ad essere adibito alla direzione della biblioteca e delle collezioni cartografiche, fotografiche e di diapositive era anche preposto alla redazione ed amministrazione della rivista L' Agricoltura Coloniale22 - l'Istituto incrementa notevolmente la sua attività ed il suo patrimonio museale parallelamente all’ acquisizione di riviste e volumi specialistici per la biblioteca.
La funzione didattica e la consulenza tecnico-scientifica, interrotte forzatamente durante la prima guerra mondiale, riprendono con vigore negli anni
successivi e si rafforzano in concomitanza con l'incremento della colonizzazione agricola fascista nelle terre d'oltremare.
La magnifica collezione di diapositive per proiezioni, che al 1° luglio 1919 ne contava 279223 viene, ad esempio, incrementata considerevolmente e, nel giro di un solo anno, portata a 4141 pezzi.24
In tal modo, grazie al ricco materiale illustrativo di cui dispone, l’Istituto può attivare, accanto a quelli ordinari, corsi speciali – le cosiddette “Illustrazioni Agrologiche” - sulle colonie italiane in Africa e i paesi extraeuropei che maggiormente interessavano la nostra emigrazione agricola.25
In quegli anni l’Istituto perde ampiamente la sua originaria autonomia e subisce un’ingerenza diretta del Ministero delle Colonie, sotto la cui alta vigilanza viene posto attraverso la promulgazione della Legge 20 luglio 1925, n. 1455.26
Organo consultivo e, al tempo stesso esecutivo, del Ministero delle Colonie, ha il compito di preparare i tecnici e i quadri direttivi e di funzionare come centro di studi, propaganda, informazione e consulenza agricola coloniale.
Sono questi gli anni in cui, nell'ideologia dell'espansionismo coloniale italiano, si fa strada il concetto di colonizzazione demografica con cui il regime tenta di risolvere il problema della disoccupazione e di stimolare la borghesia agricola italiana a nuove imprese di colonizzazione capitalistica.
E anche la rivista, che dedica parecchio spazio alla descrizione di medie e piccole aziende agrarie, distintesi per aver reso produttive le terre africane, fa propri in quegli anni tali assunti propagandistici.
Successivamente, con la colonizzazione delle province settentrionali della Libia e dell'Etiopia, l'Istituto assume funzioni direttive e di coordinamento degli Osservatori di economia agraria istituiti in ciascuna colonia dal suddetto Ministero.
Nel 1938, con il consolidamento del ruolo coloniale dell'impero fascista, il governo istituzionalizza una situazione di fatto, trasformando l'Istituto in organo tecnico-scientifico del Ministero dell'Africa Italiana nel campo della ricerca e della sperimentazione agraria (Decreto legge n. 2205 del 27 luglio 1938).27
Da organo di diritto pubblico l’Istituto si trasforma in organo dello Stato e modifica il proprio nome in "Regio Istituto Agronomico per l'Africa Italiana”
E' abbastanza evidente, da queste brevi note storiche, che l'attività dei vari Centri di sperimentazione, le ricognizioni periodiche che i funzionari dell'Istituto dovevano compiere in Africa, l'organizzazione di corsi di perfezionamento e di specializzazione in agricoltura coloniale, la collaborazione con agricoltori o studiosi che operavano in regioni tropicali, le innumerevoli conferenze illustrate da proiezioni e la funzione di informazione e consulenza dell'Istituto erano state ampiamente supportate dal mezzo fotografico e da una struttura consolidata quale era appunto la Fototeca dell’Istituto.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che alla guida dell’Istituto, fin dal 1924, era il Professor Armando
Maugini,28 la cui personale passione per la fotografia, utilizzata con finalità non solo essenzialmente agronomiche all’interno di numerosissime missioni esplorative, è testimoniata da 4723 negativi di medio formato (lastre di vetro e pellicole) e da circa 11.200 fotogrammi 24x36 mm (formato Leica).
Era quindi abbastanza naturale che la fotografia e la sua archiviazione svolgessero un ruolo predominante nell’ambito di una campagna di censimento che si affidava al mezzo visivo per affrontare i problemi della conoscenza dei territori e delle popolazioni delle colonie africane.
I documenti in nostro possesso – nella maggioranza dei casi “Relazioni morali sull’attività dell’ Istituto”, presentate al Consiglio d’Amministrazione e pubblicate sulle pagine della rivista “L’Agricoltura Coloniale” – non riescono tuttavia a fornirci dati illuminanti ed esaustivi sulle modalità con cui era organizzata l’attività della Fototeca in quegli anni.
Non potendo confortare le nostre intuizioni con riscontri oggettivi, forniti da documenti scritti, poiché il materiale relativo a quel periodo è andato perduto, o forse è disperso in qualche soffitta, abbiamo dovuto necessariamente provare ad interrogare il materiale iconografico e a incrociare le poche informazioni ufficiali con l’analisi dei dati riportati nei registri di ingresso e in alcune immagini.
Ci chiediamo, ad esempio, chi fosse il responsabile della Fototeca e quanti fossero gli impiegati addetti alla sua cura all’epoca in cui l’Istituto aveva sede a Palazzo Poniatowsky-Guadagni.
Da alcune lastre alla gelatina ai sali d’argento, da noi fortuitamente ritrovate fra il prezioso materiale della collezione che aspetta di essere ordinato e catalogato, abbiamo ricavato la ragionevole certezza che, a partire dagli anni Trenta, gli addetti fossero almeno due.29
Sicuramente, all’epoca, la Fototeca era connessa anche fisicamente al Museo e alla Biblioteca dalla quale, per tutto il corso degli anni Venti, è sicuramente dipesa.
Nella “Relazione morale sull’attività dell’ Istituto dal luglio 1919 al dicembre 1920” presentata dall’allora Direttore Dott. Nallo Mazzocchi-Alemanni al Consiglio di Amministrazione si legge infatti:
La biblioteca, (comprende) opere, miscellanee, carte geografiche e topografiche, fotografie, stereoscopie e diapositive (…)
Fa parte della Biblioteca la magnifica collezione di diapositive per proiezioni, che al 1° Luglio 1919 ne contava 2792. Di questa collezione fu particolarmente curato l’incremento, e si riuscì (…) a portarla a 4141 numeri con il considerevole aumento, cioè, di 1349 vetrini.30
Ma una stretta relazione doveva senza dubbio esistere anche tra la Fototeca e il Museo.
In un piccolo opuscolo, edito nel 1928 dallo stesso Istituto, in cui si ripercorre la storia ed il funzionamento dell’istituzione, si accenna infatti a tale collegamento:
Al Museo si riconnette la Collezione iconografica dell’ Istituto comprendente un’importante serie di 5000 diapositive, oltre a tavole, incisioni, fotografie, stereoscopie, films cinematografici, e una raccolta di esemplari dimostrativi per le lezioni delle varie materie d’insegnamento.
Le collezioni sono decorosamente collocate ed ordinate in apposite vetrine ed accessibili al pubblico tutto l’anno.31
L’informazione dedotta dall’analisi dei dati e dalle date di costituzione degli album, ci è stata confermata, anche successivamente, dal ritrovamento di alcune lastre di vetro alla gelatina ai sali d’argento e da stampe fotografiche che sicuramente risalgono al marzo 1940,32 in cui è visibile la collocazione degli album all'interno della vecchia sede di palazzo Poniatowsky-Guadagni.
Le stampe fotografiche, consentendo l’ingrandimento di alcuni dettagli, ci forniscono inoltre altre preziose informazioni sull’archiviazione del materiale fotografico.
La consistenza numerica del nucleo “storico” degli album sembra inoltre corrispondere alla somma totale presente nell’elenco dattiloscritto, privo di data, "Inventario degli album esistenti in Fototeca" che probabilmente era stato redatto in vista del trasferimento di sede.33
Il razionale funzionamento della struttura ed il suo potenziamento, a partire dall'ampliamento della sede, considerata insufficiente a contenere le accresciute funzioni dell'Istituto, è invece uno dei leit-motiv che ricorre frequentemente nei documenti dell’epoca e sul quale si concentra anche l’attenzione della stampa locale.
Già nella “Relazione sulla gestione commissariale 1930-1935”, presentata dal Senatore Luigi Bongiovanni, Regio Commissario dell’Istituto Agricolo Coloniale Italiano a S.E. il Ministro delle Colonie, si sottolineava la necessità di un ampliamento della sede di Palazzo Poniatowsky–Guadagni:
Perché tutti i servizi dell’Istituto possano trovare la loro degna e definitiva sistemazione, in vista anche dei nuovi progetti scolastici allo studio, sono ancora necessari lavori che richiederanno la costruzione di una nuova ala del palazzo e alcuni adattamenti nei locali esistenti. La quistione, minutamente elaborata, ha dato luogo alla formulazione di un progetto, da parte dell’ Ufficio tecnico municipale, in accordo coi dirigenti dell’Istituto.34
L’ampliamento avrebbe lievemente prolungato, come si può evincere dal progetto accluso, l’ala Est lungo il viale Principe Umberto, l’attuale viale Belfiore.35
L’entità della modifica dovette sembrare irrilevante per colmare l’angustia della sede di Porta a Prato se, di fatto, tale ampliamento non si realizzò mai.
LA NUOVA SEDE DEL R. ISTITUTO AGRONOMICO PER L’AFRICA ITALIANA
La Direzione e il Comitato d’Amministrazione del R. Istituto Agronomico per l’Africa Italiana preferirono convogliare energie e risorse economiche nella costruzione di una nuova sede, da erigersi nella zona di San Gervasio, nel vasto appezzamento di terreno contiguo all'Istituto dei ciechi, dove un tempo sorgeva la vecchia polveriera.
La nuova sede, almeno nelle intenzioni dei progettisti (l'Ingegner Giuntoli e il Professor Veneziani) avrebbe dovuto essere un edificio a tre piani con una facciata a sviluppo lineare di circa 160 metri dotata all'interno di un modernissimo complesso di impianti e servizi.36
Dalla planimetria del progetto originario, fortunatamente quanto casualmente ritrovata fra il
materiale presente nell'archivio, risulta che la Fototeca avrebbe dovuto essere collocata al piano terreno vicino ai laboratori, alla biblioteca e alle collezioni del museo.37
Invece, a costruzione ultimata, la nuova sede del R. Istituto Agronomico per l'Africa Italiana vide una diversa disposizione delle aule scolastiche, dei laboratori, della biblioteca e Fototeca oltre ad un ridimensionamento della sua estensione architettonica.38
Per la costruzione della nuova sede l’Istituto usufruì di agevolazioni ed aiuti da parte del Comune di Firenze che si impegnò a cedere gratuitamente allo Stato l’area di San Gervasio (mq. 13.169,97) e a corrispondere il ricavato della vendita di Palazzo Poniatowsky–Guadagni (L. 600.000), quale concorso per l’arredamento della nuova sede, la sistemazione del terreno annesso, la funzionalità delle serre e di tutti i servizi relativi all’Istituto.
39
Tuttavia durante la fase di esecuzione dei lavori si verificarono alcuni inconvenienti che portarono necessariamente a rivedere i progetti originari e a ridimensionare anche la struttura architettonica.
In primo luogo si lamentò una deficienza di fondi, dovuta in parte all’aumento dei prezzi dei materiali, in concomitanza con l’entrata in guerra dell’Italia, e successivamente, la mancata approvazione da parte del Consiglio dei Lavori Pubblici del progetto relativo all’ala di fabbricato prevista per il Museo.40 Nonostante ciò l’Istituto riuscì a trasferire gli uffici, in tempi ragionevoli, nel nuovo fabbricato di via Fibonacci e a funzionare regolarmente nella nuova sede, a partire dall’ 8 gennaio 1941.41
Dai verbali del Consiglio di Amministrazione del “R. Istituto Agronomico per l’Africa Italiana” si apprende che il trasferimento del materiale, previsto in due turni, venne invece effettuato totalmente e in tutta fretta a causa di una richiesta urgente del Comune, giustificata da esigenze di carattere militare.42
Per il trasporto del materiale l’Istituto utilizzò la Soc. Naz. Gondrand che, tramite dei grossi automezzi,
effettuò ben 61 viaggi.43
Nonostante le difficoltà derivanti dalla partecipazione italiana alla guerra il Comitato di Amministrazione si impegnò a non sospendere i lavori di sistemazione previsti, per non compromettere il necessario assetto dell’Istituto.
Si operò, in primo luogo, per sistemare adeguatamente gli ambienti destinati alla Biblioteca e
alla Fototeca e successivamente gli uffici della Direzione, della Segreteria, dell’Archivio, dell’Amministrazione oltre ai locali destinati al Museo documentario e scientifico.
I lavori vennero fatti in economia preoccupandosi di trasformare e riverniciare i vecchi mobili in legno della Biblioteca e della Fototeca per adattarli alle nuove planimetrie. Si riuscì così ad acquistare solamente un armadio, uno speciale schedario e una piccola libreria.44
Al momento dell’inaugurazione della nuova sede, avvenuta l’11 novembre 1942 all’insegna della più austera semplicità,45 la Fototeca, la cui struttura e funzionamento erano già ampliamente delineati, era annessa fisicamente agli uffici della Direzione e quindi sistemata al primo piano dell'edificio, nei locali dove ha sede attualmente l'ufficio tecnico.
Ma, non essendo le due stanze sufficienti a contenere tutto il materiale fotografico raccolto, la Fototeca finì per occupare, inevitabilmente e stabilmente, lo spazio dei corridoi antistante gli uffici.
Nei corridoi furono infatti collocati dei grandi armadi di legno, provvisti di chiusura, prodotti dalla falegnameria interna all'istituto.46
E' ragionevole pensare che questa diversa destinazione d'uso sia dipesa in gran parte da motivi organizzativi relativi allo sfruttamento delle risorse umane a disposizione.
Nonostante la grande attività e produzione della Fototeca, gli addetti al suo funzionamento erano infatti in numero esiguo e spesso dovevano occuparsi anche di ottemperare ad altre mansioni.
E' esemplificativo il caso della Signora Giovanna Garella47 che, pur essendo dal 1939 responsabile della Fototeca, continua contemporaneamente a svolgere le precedenti mansioni di impiegata-dattilografa al servizio dell'allora Direttore Dott. Armando Maugini.
Forse questa è una delle ragioni che spiega la collocazione dei locali della fototeca al primo piano, in prossimità dello studio del Direttore.
Le fonti orali (interviste rivolte alla Signora Maria Torrini Bigazzi, alla Signora Ernesta Sechini Ciuchini e alla Dott.ssa Giovanna Fortuna, ex dipendenti in pensione dell'Istituto Agronomico d'Oltremare), di cui ci siamo avvalsi per sciogliere alcuni nodi irrisolti ed ampliare il numero delle informazioni in nostro possesso,48 sono infatti servite a rendere più ricca e trasparente la documentazione e ad allargare il campo di indagine offrendo la possibilità di inserire nella ricostruzione storica soggetti od episodi finora rimasti ai margini: mi riferisco in modo particolare alla figura di Giovanna Garella, segretaria di Maugini e responsabile della Fototeca dal 1939 al 1972, a cui si deve la ricchezza e la puntualità delle informazioni che accompagnano la gran parte del materiale fotografico ivi raccolto.
Figlia di un affermato scultore,49 la solerte "signorina Giovanna Garella" viene assunta nel 1927 dall'Istituto Agricolo Coloniale in qualità di impiegata -dattilografa, addetta alla segreteria.
In realtà le sue mansioni sconfinano ben presto da tale ruolo e, in qualità di braccio destro di Armando Maugini, la portano ad occuparsi sempre più assiduamente della Fototeca.
A detta della Signora Maria Bigazzi Torrini, da noi intervistata nel novembre 2003, la struttura
organizzativa della Fototeca ruotava principalmente attorno a queste due figure e alla passione che entrambi avevano per l'arte e la fotografia.
E' estremamente significativo, per comprendere appieno un certo modo di lavorare, il tono e il contenuto di una lettera, ritrovata fra i documenti d'archivio, che reca la data 10 marzo 1940/XVIII.
In tale lettera - indirizzata dalla Signorina Garella a Libera Forghieri, dell'Ente per il Cotone dell'Africa Italiana - vengono precisate la filosofia e la struttura organizzativa che sicuramente resero, a suo tempo, così efficiente il funzionamento di questa Fototeca e che ci permettono ancora oggi di poterne trarre, a piene mani, informazioni ricche e preziose.
Cara Libera,
rispondo alla tua del 2 corr. scusandomi del ritardo.
Tutto il materiale fotografico che giunge all'Istituto viene riunito per missioni o viaggi di studio, perchè è nostro vivo desiderio che risulti sempre chi ha eseguite le fotografie o chi le ha donate. Perciò le collezioni vengono sistemate in appositi albums e classificate per indice geografico. Sul frontespizio di ciascun album, viene scritto, come ti ho detto, il nome di chi ha compiuto la missione, la data più un breve sommario degli itinerari percorsi.
La fototeca dell'Istituto possiede fotografie di varie grandezze, nella generalità tutte ottenute per contatto e cioè 6x6, 6x9, 9x12 e formato Leica.
Nel prossimo avvenire, quando cioè avrò sistemato tutti i viaggi di studio compiuti nell'Africa italiana e in vari possedimenti stranieri, formerò degli albums per materia nei quali figureranno le più belle ed interessanti fotografie che verranno ingrandite del formato 13x18. Ognuna di queste, oltre alle necessarie didascalie, porterà il nome del fotografo, il numero del rullo e del fotogramma, o del filmpak e la data di quando è stata compiuta la missione, indicazioni necessarie nel caso si volessero fare altre copie.
Non appena ci giungono i negativi si ha cura di fare un elenco (...) dei soggetti che contiene il rullo. Fatta questa prima identificazione si numereranno tutte le positive dopo di che si attaccheranno sugli album, ripetendo le stese didascalie scritte nell'elenco.
Generalmente le negative vengono impressionate con ordine e cioè per regione o per Governatorato, o per materia, per ciò non è necessario numerarle; basterà solo dare un numero d'ordine ai filmpaks o ai rulli perché questi sono già, come avrai visto, numerati progressivamente. Ci giungono anche negative alla rinfusa, in questo caso le riunisco per regione o per materia e poi le numero. Detto numero deve essere scritto in inchiostro nero ad un lato della negativa (dalla parte gelatinosa) e poi ripetuto sulla positiva.50
Instancabilmente - secondo quanto è stato raccontato nelle interviste - la signorina Garella provvedeva a fornire, ai vari tecnici e dottori in agraria che partivano per le missioni di studio, il necessario materiale (macchine fotografiche del formato Leica e rulli fotografici) per la documentazione fotografica, raccomandandosi sempre di scattare immagini di piante e altri soggetti particolari.
Al rientro dalle missioni si faceva consegnare gli appunti di viaggio che sarebbero serviti come base per la creazione delle didascalie oppure chiedeva personalmente agli autori delle immagini di dettarle tutte le informazioni utili per la formazione del titolo.
Era sempre lei inoltre che provvedeva alla selezione delle immagini più belle ed interessanti da ingrandire e collocare negli album.
Ma forse il dato più significativo delle molteplici attività svolte da Giovanna Garella sta nell'aver previsto, in accordo con quanto avveniva per il materiale librario, una molteplice schedatura per materia / indice geografico / ente di ogni fotografia in possesso della Fototeca.
E' utile ricordare che la Fototeca provvedeva a raccogliere, ordinare e classificare non solo tutto il materiale fotografico proveniente da missioni compiute dai vari funzionari dell'Istituto, ma anche il materiale inviato da tecnici operanti in zone tropicali o subtropicali, gli omaggi di privati e studiosi, di istituzioni scientifiche o derivante da acquisti. Materiale dunque non sempre omogeneo e non sempre provvisto del negativo originale.
Provvedeva inoltre alla preparazione di diapositive e schede illustrative per tutti quei soggetti che avevano un riferimento preciso ai compiti scientifici e didattici affidati ai vari laboratori dell'istituto.
Era pertanto necessaria, al fine di facilitare la ricerca immediata di un determinato soggetto, non solo una razionale inventariazione ma anche una proficua e molteplice schedatura di ogni fotografia.
LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA DELLA FOTOTECA ATTORNO AGLI ANNI QUARANTA
Dalle informazioni contenute nei documenti trovati in archivio, ma soprattutto dall'analisi dei registri degli inventari, è possibile tentare di ricostruire una mappa della situazione relativa al funzionamento della Fototeca attorno agli anni Quaranta.
Archivio Diapositive
Da un dattiloscritto, redatto in data 9 Novembre 1941/XX, dal titolo "Riunione per la Fototeca" si evincono importanti informazioni relative alla gestione dell’archivio diapositive e al suo futuro utilizzo:
Le diapositive sono raggruppate nelle seguenti categorie:
a) diapositive che non hanno alcun riferimento
geografico;
b) diapositive relative all'Africa Italiana distinte nei
seguenti gruppi:
1) Tripolitania = con sigla T
2) Cirenaica = con sigla C
3) Africa Orientale Italiana = con sigla A.O.I.
c) diapositive relative alle Isole Italiane dell'Egeo =
con sigla I
La schedatura delle diapositive è fatta per:
a) Indice Geografico;
b) Per materia;
c) Per singole Aziende Agrarie (Enti di
Colonizzazione, Istituti ed Imprese Private)51
Dai tre registri, che funzionavano da inventario, e dai numerosi registri suddivisi per soggetto (Agronomia, Agricoltura, Cirenaica, Etiopia, Isole Italiane dell'Egeo, Paesi Vari, Tecnologia, Tripolitania, Varie, Zoologia-Zootecnica-Entomologia), ritrovati fra il materiale d'archivio, abbiamo ricavato alcune interessanti informazioni circa la consistenza di un primo nucleo di diapositive (5780 lastre di vetro) prodotte dall'agosto 1913 al maggio 1934 e schedate per materia/soggetto.52
Dopo il 1934 la produzione delle lastre diapositive viene a calare poiché la proiezione di diapositive per le lezioni didattiche è sostituita, per motivi di praticità, da schede rosa e celesti di formato 26,5 x 24,5 cm su cui vengono incollate le stampe fotografiche. Di questa sorta di schedario illustrato ogni singolo laboratorio doveva essere munito.
Archivio Negativi
In data 9 novembre 1941/XX i partecipanti alla riunione di servizio della Fototeca - nelle persone del Direttore Prof. Maugini, Prof. Ferrara, Dott. Bartolozzi e Signorina Garella - decidono di
iniziare una numerazione progressiva di tutti i negativi esistenti non tenendo conto del riferimento cronologico delle singole negative. Ciò non toglie che ogni missione di studio, donazione, acquisto, ecc. abbia un proprio specifico riferimento numerico.
Rimane precisato che la numerazione progressiva generale si riferisca ad ogni singolo negativo, indipendentemente dal formato adottato, ad eccezione dei fotogrammi raccolti in appositi filmi che porteranno un unico numero progressivo di riferimento (rotoli leica, ecc.).53
Non ci è stato finora possibile appurare come fosse ordinato il copioso e prezioso materiale, presente nell' Archivio negativi prima di quella data, poiché i documenti in nostro possesso sono tutti successivi.
Ci è però chiaro come sarà inventariato e schedato a partire da quel momento.
La fototeca risulta costituita da due gruppi di fotografie:
a) fotografie di cui si dispongono i negativi (curate
dall'Ente o di qualsiasi altra provenienza)
b) fotografie di cui non si dispongono i negativi.
Ogni fotografia che giunga alla fototeca (...), sia ottenuta da negativi a disposizione dell'Ente, sia di qualsiasi altra provenienza, viene registrata nell'apposito registro d'entrata.
Le fotografie della prima serie ricevono la numerazione in cifre arabe e quelle della seconda serie in cifre arabe precedute dalla lettera maiuscola A. Il registro d'entrata reca le seguenti indicazioni: data, luogo, soggetto, autore, annotazioni per la prima serie; data, luogo, soggetto, autore, collocazione album per la seconda serie.
Per le fotografie della prima serie, di cui si disponga cioè di negativi, viene stampata una copietta nel formato normale del negativo, da applicare nel catalogo generale dove verrà riportata la numerazione del catalogo in entrata e gli estremi della fotografia, del fotografo e la data, quali risultano dal registro- inventario di entrata.
I negativi saranno disposti in apposite bustine contrassegnate con il medesimo numero di ordine e collocate nel mobile apposito.
Delle fotografie di questa prima serie che risultino avere particolare interesse verranno fatti ingrandimenti che a loro volta verranno collocati negli album, distinti per materia.
Gli ingrandimenti saranno fatti nel formato 8x12,5.
Qualora una fotografia interessi diverse materie, sarà collocata nell'album corrispondente all'argomento di maggiore importanza.54
Collezione Album fotografici
Si presuppone che al momento del trasferimento nella nuova sede la collezione degli album fotografici contasse all'incirca 190 album, per intenderci quelli
attualmente contrassegnati dalla sigla paese AOI (Africa Orientale Italiana), ER (Eritrea), SO (Somalia), LY (Cirenaica e Tripolitania, l'attuale Libia).
L'informazione, dedotta dalle date di costituzione degli album, ci è stata confermata da fonte orale e successivamente, dal ritrovamento di alcune lastre di vetro in cui è visibile la collocazione degli album all'interno della vecchia sede di palazzo Poniatowsky-Guadagni.55
La consistenza numerica del nucleo “storico” degli album - riconoscibili perché il titolo originale, corrispondente generalmente alla missione di studio, è sempre presente sul dorso, impresso in incavo dorato - sembra inoltre corrispondere, come già dicevamo, alla somma totale presente in un elenco dattiloscritto, privo di data, "Inventario degli album esistenti in Fototeca" che sicuramente era stato redatto in vista del trasferimento di sede.56
Ci risulta che tali album, la cui segnatura originaria va dal numero d'inventario 2144 al numero 2292, fossero stati acquistati in una cartoleria del centro dalla signorina Garella, che ne aveva deciso perfino il colore.57
Da documenti ritrovati fra varie carte, alcuni anche di epoca successiva alla sistemazione nella nuova sede, provengono informazioni interessanti circa il metodo di lavoro adottato nella costituzione degli album.
Sicuramente dopo aver stampato a contatto tutti i negativi ed aver provveduto a numerarli ed identificarli, gli addetti alla Fototeca sistemavano le immagini positive, riunite per missioni o viaggi di studio, in appositi album che recavano un numero progressivo e le numeravano singolarmente con lo stesso numero del negativo.
Sul frontespizio di ciascun album viene precisato il nome del donatore o del funzionario che ha eseguito le fotografie durante la sua missione, viaggio, ecc; l'epoca in cui sono state fatte le fotografie, il paese, le località e il soggetto.
Quelle fotografie che non hanno i relativi negativi, vengono lo stesso sistemate in album e numerate progressivamente, però per queste viene indicata la inesistenza dei negativi stessi.58
Schedario per materia e indice geografico
Già nel settembre 1943 un dattiloscritto dal titolo "Disposizioni per la Fototeca" prevedeva quanto segue:
Di ogni fotografia verrà compilata una o più schede, sì da permettere il facile reperimento. Le schede saranno compilate scrivendo nella prima riga, come parola d'ordine, la voce di materia, nella seconda riga la descrizione della fotografia, nella quarta riga il nome del fotografo e la data. La collocazione risultante nella scheda recherà la lettera corrispondente all'album e, per le fotografie eseguite a cura dell'Ente di cui si disponga dei negativi, il numero d'ordine d'entrata. Per le fotografie che, pure essendo collocate in un solo album, interessino più argomenti, potranno farsi delle schede di rinvio.59
Schedario Illustrato per materia
Sicuramente la costituzione di uno schedario illustrato per materia, la cui funzione principale è quella di facilitare la ricerca immediata di un determinato soggetto, è strettamente connessa alla decisione presa dai responsabili della Fototeca, nel novembre 1941, di interrompere la produzione di lastre diapositive e di sospenderne la visione sullo schermo.
In quella occasione viene sottolineata la necessità per ogni laboratorio di munirsi di un apposito schedario (schede munite di fotografie) di quelle diapositive che hanno uno specifico riferimento ai compiti scientifici e didattici affidati ad ogni laboratorio stesso.60
Successivamente si provvide a selezionare le migliori e più significative fotografie esistenti nella fototeca61 per la compilazione di uno schedario illustrato generale.
Laboratorio di sviluppo e stampa
Da alcune lastre di vetro conservate in Fototeca e dalle relative stampe fotografiche, inserite nell'album contrassegnato dalla sigla paese 32 IT, si desume quanto fosse consistente la produzione della Fototeca se, già nel 1942, si appoggiava ad un piccolo laboratorio interno (provvisto tra l'altro di attrezzatura per la micro e macrofotografia) per lo sviluppo e la stampa del materiale fotografico, proveniente dalle missioni o viaggi di studio compiute dai vari funzionari dell'Istituto.62
Era inoltre abitudine a quel tempo utilizzare le immagini fotografiche, stampate in grande dimensione, per abbellire gli uffici dei dipendenti e per arricchire le bacheche del Museo di prodotti agricoli, zootecnici e forestali.
Responsabile del laboratorio - situato al secondo piano dell'Istituto - era allora il signor Enrico Benci.63
L’emergenza della guerra incise in modo profondo sull’attività della Fototeca poiché, data la preziosità e la fragilità del materiale fotografico ivi contenuto, la maggior parte delle collezioni esistenti furono messe al sicuro in locali murati.64
La sistemazione venne dunque interrotta e si rimandarono a tempi migliori il riordinamento degli inventari e delle collezioni.
Anche la produzione e la donazione di materiale fotografico subirono un rallentamento notevole, come si può evincere dall’analisi dell’archivio negativi e della collezione degli album.
Si pensi che, dal 1910 al 1940, la Fototeca aveva inventariato e catalogato 5780 diapositive su vetro e all’incirca 14.000 negativi, tra lastre e pellicole di medio formato, oltre a circa 13.000 fotogrammi 24 x 36 mm (363 buste portanegativi per pellicola 135, mantenuta nel formato a strisce).65
Dopo tale data la produzione andrà a calare drasticamente per circa un decennio, per poi riprendere progressivamente a partire dai primi anni Cinquanta.
Furono quelli gli anni in cui l’Istituto fornì assistenza ai programmi post bellici di emigrazione agricola assistita, particolarmente in America Latina, preoccupandosi di analizzare e valutare le potenzialità naturali e le concrete possibilità migratorie.
Sempre in quegli anni fornì assistenza allo sviluppo dell’organizzazione agricola somala, prima nell’ambito delle attività dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia (1950/60) e poi attraverso l’Assistenza Tecnica alla Repubblica Somala (1960/65).66
In previsione dell’indipendenza dell’ex colonia, l’Istituto si adoperò attivamente per
lasciare alla nuova
nazione un apparato agricolo produttivo il più adeguato alle condizioni fisiche e climatiche 67
Un momento di particolare esaltazione e fervore organizzativo venne vissuto inoltre durante la preparazione della “Mostra d’Oltremare e del Lavoro Italiano nel mondo” (Napoli, 1952).
In occasione della mostra vennero esposte in un apposito padiglione, a totale carico dell’ente organizzativo, 32 grandi fotografie e 12 foto luminose, oltre a vari grafici per illustrare l’organizzazione dell’Istituto, le sue attività scientifiche e didattiche e il lavoro svolto dall’Italia nei suoi ex possedimenti africani e in America Latina.68
Nonostante tali momenti positivi e la tenacia ammirevole dei dirigenti dell’Istituto e degli addetti alla Fototeca, che continueranno a lavorare e a catalogare in maniera puntuale e precisa tutto il materiale pervenuto, la struttura risentirà negativamente del lungo periodo di incertezze e mortificazioni che, dal 1947 al 1962, coinvolse l’ Istituto e la sua stentata e precaria esistenza,69 a causa dell’incapacità del Governo italiano di trovare una soluzione soddisfacente al suo necessario potenziamento e riordinamento.70
Non si assisterà ad una vera e propria paralisi – e questo grazie alle capacità individuali delle persone addette alla cura della Fototeca – ma neanche ad un periodo di rinascita ed incremento di attività come ci si sarebbe potuto aspettare.
I dati, ancora una volta, ci forniscono interessanti spunti di riflessione e ci informano sull’andamento dell’attività di catalogazione e sulla capacità di tenuta della struttura che, dal 1950 al 1980, archivia e cataloga 3800 negativi di medio formato e circa 22.600 fotogrammi 24 x 36 mm (628 buste portanegativi per pellicola 135).
Non molto dissimile la situazione sul versante della costituzione degli album che, in questo periodo,
confluiscono ancora in modo consistente nelle raccolte dell’Istituto, grazie anche alle donazioni di Enti e privati. 71
La Fototeca risentì comunque, anche se non in modo drammatico, del lungo periodo di incertezza istituzionale e fu costretta a vivere una fase di decorosa ed attiva sopravvivenza pur essendo consapevole della propria vitalità.
Sono illuminanti le parole e il tono accorato con cui, in una riunione del Comitato di Amministrazione del luglio 1961, il Presidente Armando Maugini espone ai convenuti la sua visione dei fatti:
Da oltre 10 anni è in corso di esame uno schema di disegno di legge che, dopo vicende varie, si trova ancora dinanzi al Parlamento. E sembra si discuta ancora se l’ Istituto debba dipendere da un Ministero o dall’altro, se debbano prevalere le funzioni didattiche o altre attività che si svolgono da tempo all’ Istituto.(…)
Si deve notare, anche se può riuscire amaro il riconoscerlo, che allo scarso interessamento di molti uomini politici italiani, fece e fa contrasto la crescente attenzione di numerose personalità straniere e di istituzioni e centri di studio di molti paesi esteri.(…)
Questi contatti, queste attenzioni (…) rendono più amara e penosa la nostra attesa e mettono qualche volta a disagio nella constatazione di alcune gravi carenze di cui soffre l’Istituto.
Esso è infatti, vivo e vitale, ma invecchiato, dopo 20 anni di disinteresse pressoché totale.72
Ma, la disillusione e l’acredine, non impedirono mai a Maugini, e a tutto lo staff che attorno a lui ruotava, di perdere di vista l’obbiettivo primario rappresentato dalla necessità di ridefinire il ruolo e i compiti dell’Istituto, al fine di irrobustirne e potenziarne la struttura.
Struttura che godeva – a quanto risulta da un interessante opuscolo, forse pubblicato ad hoc nel 1959, per spingere il governo italiano a prendere una
decisione – di buona salute ed aveva piena coscienza delle capacità e possibilità di espansione dei propri organi.
Si legge infatti a proposito della Fototeca:
La Fototeca (due locali) è venuta costituendosi gradualmente coi materiali fotografici delle varie missioni di studio compiute dal personale e da altri tecnici. Essa è in continua espansione. Le collezioni sono ordinate in modo da consentire il facile reperimento dei soggetti desiderati. Le serie più ricche si riferiscono a diversi territori dell’America latina e del Continente africano. Quelle relative agli ex possedimenti africani hanno un notevole valore documentario. Si trovano nella Fototeca, in deposito, i negativi di numerose serie dell’ Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia. La consistenza attuale è di circa 50.000 negative con relative positive e di 8.000 diapositive; oltre a numerosi album offerti in dono alla Fototeca e che si riferiscono quasi tutti ad attività agricole svolte da italiani nei paesi tropicali.
La Fototeca possiede anche una modesta attrezzatura per riproduzioni, microfilms, riprese dirette, presentazione di films, ecc., cioè di vari tipi di macchine fotografiche, di una Paillard 16MM da ripresa, di tre proiettori (da 35-16 e 8 millimetri), di un epidascopio e di materiale vario per la conservazione delle foto e delle pellicole. Oltre a rispondere alle esigenze dei vari servizi dell’Istituto, con speciale riguardo ai diversi insegnamenti, la Fototeca è ben conosciuta in taluni ambienti di studiosi, di editori, di istituti universitari ecc., i quali attingono largamente alle sue collezioni.
Essa si è dimostrata utile anche ai fini dell’assistenza che l’Istituto concede a coloro che desiderano informazioni e consigli, nella imminenza di viaggi all’estero, per svolgervi attività nel campo economico. Le fotografie infatti, se opportunamente commentate da personale specializzato, rappresentano
una documentazione viva e fedele, capace di dare elementi di orientamento a coloro che ne facciano oggetto di diligente esame. 73
I rapporti della Fototeca con l'editoria e il mondo dell'Università furono infatti, per diversi anni, molto intensi: oltre a fornire copioso materiale fotografico a mostre ed esposizioni in diverse città italiane e straniere, la Fototeca annoverava molteplici “clienti” fra gli studiosi, gli studenti, i Ministeri e le Ambasciate, le Organizzazioni Internazionali (ICLE, CEE, FAO, CIME), le case editrici italiane e straniere (Arnoldo Mondadori, Utet, Zanichelli, Curcio, Touring Club Italiano, Edizioni d'Arte C. Bestetti, Einaudi, Editori Riuniti, Fabbri, ecc), Istituti ed Enti vari (RAI, Istituto LUCE, Società Edison, Società SIMBA).74
Nel nuovo clima di attività europeiste che si era delineato nei primi anni Sessanta e nella rinnovata attenzione ai programmi di assistenza tecnica e finanziaria dei paesi in via di sviluppo, l’Istituto aveva tutte le carte in regola per tornare ad essere protagonista.
L'impedimento era però rappresentato dalla vaghezza che aleggiava attorno alla sua figura giuridica.
La legge n. 430 del 29 aprile 1953 aveva soppresso il Ministero dell'Africa Italiana e trasferito le attribuzioni relative all'Istituto – ridenominato, con ordine di servizio, Istituto Agronomico per l'Oltremare - al Ministero degli Affari Esteri ma non ne aveva delineata in maniera precisa la fisionomia.75
Lo stesso dicasi per la Legge n.1612, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.301 del 30 novembre 1962, che, pur consolidando la dipendenza delle attività dell'Istituto dal Ministero degli Affari Esteri e preoccupandosi di infondergli nuove possibilità, mettendolo
per la prima volta in rapporto diretto col Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste e con quello del Lavoro e della Previdenza Sociale 76 non riesce a ridefinirne il ruolo e ad affermarne l'autonomia.
Nella soluzione indicata dalla Legge n.1612 del 30 novembre 1962 venne però accolta appieno la denominazione di “Istituto Agronomico per l’Oltremare” proposta da Armando Maugini e la riflessione con cui l’allora Direttore motivava la necessità del mutamento della precedente denominazione: Il permanere della denominazione di Istituto Agronomico per l’Africa Italiana, in atti ufficiali, oltre ad essere una incongruenza inammissibile, determinò e determina, nell’opinione pubblica, dubbi e perplessità nei riguardi dell’Istituto (…)77
Ciononostante una sorta di disaffezione dilagante a tutto ciò che sembrava ricordare il passato coloniale impedì all’Istituto di superare in breve quella che poteva essere solo una fase interlocutoria e di transizione.
Inoltre la Legge n. 1612 non fu mai seguita dall'emanazione di un regolamento di esecuzione e ciò contribuì non poco alla burocratizzazione dell'Istituto e al rafforzamento della figura del Direttore, peraltro anche Presidente del Comitato (e non più Consiglio) di amministrazione e quindi rappresentante legale dell'Istituto stesso.
La rapida successione di ben 13 Direttori Generali nell’arco di un ventennio (1964/1984)78 e l’impossibilità dunque di imprimere orientamenti duraturi alle attività dell’Istituto incise negativamente sulla ricerca scientifica e sulla motivazione professionale, consentendo solo lo svolgimento, in un’atmosfera alquanto depressa, di un’attività rallentata, quasi unicamente dedicata a studi e ricerche in patria ed a studi e revisioni delle attività passate.79
DAGLI ANNI OTTANTA AD OGGI
A partire dalla Legge n. 38 del 9 febbraio 1979 sulla cooperazione italiana con i paesi in via di sviluppo, l’Istituto vide un suo progressivo coinvolgimento nei programmi di assistenza tecnica ad iniziative promosse da organismi internazionali o sopranazionali quali FAO e CEE, ma soprattutto responsabilità operative nei programmi e progetti di attività del Dipartimento di Cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.80
L’intensificarsi di tale attività di collaborazione rese indispensabile l’impegno, da parte del Governo Italiano, a presentare un disegno di legge per la ristrutturazione dell’Istituto Agronomico per l’Oltremare, in modo da poter affiancare alle precedenti mansioni, svolte nel campo della ricerca scientifica e della formazione professionale, una nuova funzione di cooperazione allo sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo, in un obiettivo di solidarietà internazionale.81
Attraverso l’indispensabile legge di ristrutturazione, l’Istituto pensava di rimuovere i problemi, determinati da strutture obsolete, dannosa burocratizzazione, scarse disponibilità economiche e debolezza quantitativa e qualitativa del personale.82
L’agognata riqualificazione e l’adeguamento del personale ai nuovi compiti istituzionali fu perseguito dall’Istituto Agronomico a partire dalla definizione di un organigramma funzionale alle nuove esigenze operative che, nel privilegiare le specializzazioni dei Laboratori scientifici, finì però per penalizzare le attività di documentazione ed informazione connesse alla Biblioteca, alla Fototeca, al Laboratorio fotografico e alla pubblicazione della rivista.83
L’orientamento che prevalse, a partire dagli anni Ottanta, disattese dunque alcune indicazioni di fondo
che erano state alla base stessa della nascita dell’Istituto e la cui importanza, almeno teoricamente, continuò ad essere sottolineata, come si può evincere da un verbale del Comitato di amministrazione del novembre 1972 del quale forniamo l'estratto che segue:
Nel disegno di aggiornamento uno degli elementi fondamentali su cui dovrà basarsi l’attività futura dell’Istituto è la creazione di un centro di documentazione ed informazione in funzione interna ed esterna. Il centro sarà costituito avvalendosi dell’ampia disponibilità di mezzi e materiali (biblioteca, fototeca, collezioni, cataloghi, ecc.) in possesso dell’Istituto, opportunamente organizzati per una consultazione rapida ed efficace.84
Il destino della Fototeca venne dunque coinvolto da questa nuova tendenza e dalla volontà di ristrutturare, mettendo da parte tutto ciò che in qualche modo non era più considerato funzionale alle nuove esigenze.
Nei primi anni Ottanta venne, ad esempio, deciso il trasferimento di tutto il materiale che costituiva il patrimonio della Fototeca dal primo piano, dove era alloggiato, al piano terreno dove andò ad occupare due locali un tempo adibiti ad aule per la didattica.85
Nella nuova sede vennero risistemati i mobili originari provvedendo ad adattarli ai nuovi locali e venne ricollocato tutto il materiale negli armadi originari, i cui vetri furono sostituiti con reti metalliche.
Sebbene l’attività di documentazione fotografica dell’Istituto e dei suoi funzionari sia ufficialmente continuata anche in quegli anni, la sensazione che si ricava dall’analisi del materiale prodotto rivela invece una notevole disattenzione e perdita di interesse per questa funzione istituzionale.
Nel mobile in cui è collocato l'archivio negativi, il materiale è sistemato ordinatamente fino al 1984.
Il materiale prodotto successivamente non risulta invece né catalogato e neppure sommariamente archiviato. Vari cassetti del secondo scomparto, con ante a scorrere, contengono buste vuote, caricatori a slitta, numerose scatoline per diapositive, cartoncini bianchi e buste varie contenenti fotografie prive di indicazioni, ma risalenti sicuramente agli anni Ottanta.
Se ne ricava una sensazione di provvisorietà e disordine che contrasta con la preziosità delle informazioni contenute invece negli spazi contenitori superiori e con la meticolosità con cui venivano compilati gli inventari e le schede illustrate.
La consuetudine di consegnare macchine e rulli fotografici ai vari tecnici agrari che si recavano all’estero in missione, e la raccomandazione di documentare il più possibile le realtà con cui venivano in contatto, venne teoricamente mantenuta nel tempo ma con risultati non sempre visibili ed apprezzabili.
Nel corso degli anni Ottanta/Novanta la Fototeca perse dunque la sua funzione originaria di supporto documentario e scientifico alle varie missioni di studio compiute dal personale dell’Istituto.
Nel 1997 la Direzione dell' Istituto Agronomico per l'Oltremare decise di riprendere in mano le sorti della Fototeca per rivitalizzarne l'enorme patrimonio collettivo e renderla di nuovo strumento di consultazione e memoria storica.
Nel perseguire tale obiettivo venne conferita una borsa di studio alla Dottoressa Katia Raguzzoni con l'incarico di procedere al riordino e alla catalogazione di parte del materiale fotografico ivi collocato.86
Nel periodo in cui espletò il suo mandato (1997-1999), la Dottoressa Katia Raguzzoni provvide alla sistemazione delle foto sciolte e degli album negli armadi di metallo appositamente acquistati e successivamente alla costruzione di un sistema di catalogazione in cui inserire le informazioni che poteva evincere dal prezioso materiale dell’Archivio.
All'interno del progetto di riordino e valorizzazione del patrimonio documentale dell’Istituto, si preoccupò in primo luogo di inventariare e quindi di quantificare
numericamente gli album e di rendere accessibili le informazioni in essi contenute.
Optò per l'adozione di un sistema di catalogazione “misto” che in parte riutilizzava il precedente sistema di catalogazione (basato su aree geografiche e missioni di studio), in parte teneva conto delle nascita di nuove nazioni attribuendo ad ogni album, in aggiunta al vecchio numero storico di inventariazione, un numero progressivo accompagnato da una sigla-paese per facilitare l'accorpamento e l'individuazione del materiale.
I 502 album che costituiscono una parte considerevole del patrimonio fotografico dell'Istituto Agronomico (per un totale di 64.336 fotografie), furono dunque ricollocati in tre grandi armadi metallici e accorpati fisicamente secondo grandi aree geografiche (Americhe, Africa, Oceania, Asia, Europa) che, al loro interno, prevedono successive ripartizioni per paese o per nome storico.
Nell'illustrare il progetto di riordino la Dottoressa Raguzzoni indica, a grandi linee, il sistema di catalogazione adottato:
La collezione riguarda principalmente album degli anni Venti e Trenta e alcuni nomi geografici storicamente noti, per necessità di catalogazione, sono stati modificati con i nomi geografici attuali (conservando tuttavia il nome "storico" dei paesi in oggetto); ad esempio per gli album relativi all'Africa Orientale Italiana i paesi di riferimento per la catalogazione sono stati Eritrea, Somalia ed Etiopia. Allo stesso modo per la ricerca di album riguardanti Tripolitania e Cirenaica occorrerà procedere con una ricerca nell'ambito paese Libia, così lo Zaire è da ricercarsi come Congo, la Rodhesia da ricercarsi come Zambia o Zimbabwe, l'Urundi come Burundi, ecc.87
Non ritenendo opportuno smembrare certi insiemi storici, si sono lasciati fisicamente accorpati pensando di recuperare poi le informazioni relative al nome geografico del paese, attraverso la catalogazione
informatica. Ad esempio gli album che recavano sul dorso il timbro a secco "Africa Orientale Italiana" sono stati tenuti fisicamente insieme anche se i paesi di riferimento sono Eritrea, Somalia, Etiopia.
In una fase successiva sono state archiviate circa cinquemila fotografie sciolte che giacevano disordinatamente negli scatoloni, adottando elementari norme di conservazione del materiale fotografico quale l'impiego di buste in carta di cotone per contenere le singole fotografie.88
Una volta ordinate, le fotografie sono state collocate all'interno di 47 contenitori a cartella e di centinaia di buste da lettera 30 x 40 cm, recanti l’intestazione Ministero degli Affari Esteri - Istituto Agronomico per l’Oltremare.
Le buste originarie, prive di indicazioni particolari, a detta della Dottoressa Ragazzoni - incaricata dell’operazione di riordino - non sono state conservate perché danneggiate ma tutte le informazioni sono state diligentemente trascritte nel campo Descrizione del foglio elettronico da lei creato per il sistema di riordino.
Con la finalità esplicita di creare un "vetrina d'immagini"89 è stato messo on line un sistema di ricerca di immagini sul sito dello IAO. Le fotografie digitalizzate e consultabili sono 584 (una sola foto per album e 86 per le cosiddette foto sciolte).
La ricerca on line avviene compilando il campo "Paese", attraverso la scelta obbligata da un menu, ed il campo non obbligatorio "Parola libera" (free text) che ci sembra rimandare alle informazioni contenute nel campo Descrizione. Ma poiché, come esplicitamente affermato dalla incaricata del progetto di riordino, nel campo descrizione sono stati riportati solo alcuni aspetti descrittivi delle foto contenute negli album, seppur secondo criteri rappresentativi, e non tutte le didascalie originali delle fotografie contenute90, lo strumento di ricerca adottato risulta impreciso.
Le interrogazioni sono inoltre possibili solo a patto di conoscere le parole chiave, di cui però non viene fornita lista.
Non è stata prevista, oltre alla ricerca a testo libero, una ricerca incrociata in campi precostituiti e con una serie di occorrenze a menu come invece, ad esempio, è stato realizzato con il progetto di automazione della Biblioteca dell'Istituto che, nel trasferire i dati bibliografici del catalogo cartaceo nella memoria del computer, ha fornito all'utente la possibilità di fare ricerche per specifici campi (Autore, Editore, Titolo, Soggetto, Collane, Classificazioni), fornendo altresì all'utente remoto liste precostituite entro cui muoversi per la ricerca di determinati termini o autori.
Daniela Tartaglia
Nel secondo dopoguerra, il paesaggio continua a rimanere uno dei luoghi di confronto privilegiati per la fotografia: non solo un genere, ma un terreno sul quale fondare le pietre miliari della propria evoluzione linguistica e un approccio critico attorno alla natura stessa del fotografare. I fotografi italiani, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, si appropriano di un modo diverso di avvicinarsi agli oggetti e al territorio, producendo immagini che sono prive di qualsiasi vocazione documentaria, ma anche assai lontane dalla estetica dell'istantanea e dalla frammentarietà della visione, che erano stati i canoni estetici della fotografia d'avanguardia del primo Novecento. Le immagini pubblicate in questa sezione -apparse con continuità sulle pagine di "Ferrania" - si collocano dunque all'interno di un ambito culturale storicamente definito dall'influenza poetica del Realismo Magico e, in fotografia, dal tentativo di Alfred Stieglitz e Edward Weston -esponenti di spicco della 'nuova' fotografia americana -di mostrare che il valore della fotografia non è dovuto alla semplice 'qualità del soggetto', bensì alla capacità dell'autore di lanciare un ponte tra forma e pensiero. Altrettanto influente il contributo della Subjektive Fotografie di Otto Steinert ed infine di Minor White che, nella sua ricerca sulla natura e il paesaggio, amplifica il concetto di Equivalenza visiva arrivando a considerare la fotografia simbolo e metafora di qualcosa che è al di là del soggetto fotografato.
In una Europa che usciva devastata dall' esperienza dei totalitarismi e dalla guerra, il bisogno di dare corpo -in tutti i campi -alla propria espressione individuale si afferma dunque con difficoltà ma anche con insolito vigore, intriso di suggestioni esistenzialiste e talvolta mistiche. Sulle pagine delle riviste specializzate circolavano infatti in quegli anni le immagini dei grandi maestri stranieri che, con il loro approccio nei confronti della realtà, avevano innalzato le qualità astratte e formali verso una sorprendente e realistica visionarietà. Fu un colpo di fulmine,, la consapevolezza che la fotografia poteva essere anche un modo per riscoprire la natura nella sua essenza, il senso intimo e spirituale della bellezza insita nella materia e nel paesaggio. Le immagini di nuvole di Pedrotti e Galimberti -nel loro porsi come espressione di uno stato d'animo piuttosto che come mera registrazione di un fenomeno naturale -ci indicano immediatamente che il cammino percorso è quello tracciato dalle elaborazioni concettuali della 'nuova' fotografia americana.
Espressionista ed informale ci sembrerebbe invece la matrice che accomuna le immagini di autori fra loro profondamente diversi -tra i tanti Donzelli e Giacomelli - ma ugualmente capaci di trasmettere con intensità il 'dramma' della realtà e della materia. Sostenitori di una fotografia che si allontana in maniera definitiva dalla registrazione documentaria del paesaggio, i protagonisti di questa nuova attitudine dello sguardo testimoniano e rivendicano, anche in Italia, il valore della soggettività dell'interpretazione, la fusione di suggestioni letterarie, cinematografiche e psicologiche nell'approccio al soggetto della fotografia. A differenza della fotografia dell'anteguerra, questa nuova generazione
di fotografi ha però ben più chiaro il valore autonomo del 'bello fotografico', non più intriso di romanticismo e bozzettismo, ma casomai di elementi concretisti, informali e concettuali ante litteram.
OLTRE IL LIRISMO
I primi anni di "Ferrania" sono segnati in maniera consistente dalla presenza di Giuseppe Cavalli e degli autori aderenti alla Bussola, ilil gruppo fotografico da lui fondato che nel 1947 pubblicherà sulle pagine della rivista il proprio manifesto ideologico, di chiara ispirazione crociana. La saggezza intellettuale del 'maestro' di Senigallia e il segno che la sua opera lascerà sull'evoluzione della fotografia italiana ricevono ampio consenso anche da esponenti della rivista -l'allora direttore Guido Bezzola e il critico Giuseppe Turroni -attestati su posizioni ideologiche di stampo neorealista e tuttavia osservatori capaci di riconoscere e valorizzare 'il nuovo', laddove è ancora in nuce. La contrapposizione fra questa visione intimista e il mondo di miseria e sofferenza, che vive sulle pagine del Politecnico di Elio Vittorini, di Cinema Nuovo e nelle opere cinematografiche di De Sica e Rossellini, diventa con il tempo sempre più netta, senza scalfire in nessun modo però le suggestioni poetiche di questa corrente della fotografia amatoriale. Sebbene stigmatizzate per il loro individualismo e il loro allontanamento dalla storia, da parte di coloro che rivendicano invece attenzione e dialogo con il dramma realistico e l'impegno sociale, le suggestive immagini di questi autori incontrano un grande favore all'interno del mondo del dilettantismo, in virtù della 'memoria lirica' che sanno evocare, della loro aspirazione al 'nuovo' e della accuratezza della tecnica fotografica. L'uso magistrale della luce e di ottiche raffinate, frutto di una sapienza artigianale comune a gran parte di questa estesa cerchia di avvocati, medici, dirigenti d'industria, colti e appassionati, costituiscono gli elementi determinanti di tale successo e si coniugano con una eguale abilità in camera oscura e con l'utilizzo di pregiate carte artistiche che all'epoca il mercato forniva con grande varietà. Nelle impeccabili stampe 30x40, inviate alla rivista per la pubblicazione, il comune denominatore è una resa attenta e sofisticata della materia, una modellazione plastica di notevole valore, sempre attenta a coniugarsi alla capacità di esprimere il proprio mondo interiore. La fotografia è, per questi fotografi, uno strumento d'espressione poetica a tutto campo, un atto creativo scaturito non solo dalla manipolazione dei supporti materiali ma dallo stato d'animo di chi crea l'immagine e sa quindi 'vedere'. E' una fotografia rigorosamente in bianco/nero perché, a parte alcuni rari esempi, il colore non produce in quegli anni suggestioni significative e non ha altri intenti se non quelli della riproduzione e della gradevolezza cromatica. L'estetismo diffuso si coniuga sia ad un pacato lirismo di chiara marca mediterranea e ad una fotografia luminosa a 'tono alto', sia ad uno sguardo graffiante - fra tutti quello di Giacomelli - che marca il territorio e ne ricerca le ferite, i segni morfologici inseguendo un ordine che non è più da ricercarsi nella tradizione, ma è contrassegnato dai valori
della modernità. Le immagini mantengono inoltre tutte la stessa distanza, più 'concettuale' che fisica, nei confronti del paesaggio. Non hanno interesse ad indagare e misurare il territorio geologicamente o antropologicamente. Del paesaggio si riappropriano invece con una tensione che è nutrita sia da forti valenze psicologiche ed esistenzialiste sia da una tendenza alla drammatizzazione , assente nelle immagini formaliste e nelle 'sublimazioni' di Cavalli e degli esponenti della Bussola.
Si parlò a lungo, in quegli anni, di immagini come documento poetico, di immagini realiste ma al contempo capaci di restituire ed evocare gli 'avvenimenti dello spirito'. Tale intuizione non venne mai meno, neppure quando il paesaggio cominciò lentamente ad animarsi, o quando - anche se con una certa timidezza -l'uomo cominciò ad essere presente sulla scena fotografica. Non sarà mai però un protagonismo di stampo verista; casomai una teatralizzazione umanizzata del paesaggio, che nella costruzione dell'immagine fa leva sull' ambiguità della percezione, in una direzione che comunque anela sempre all'astrazione.
Daniela Tartaglia
Strutturato sulla tradizione della grande fotografia di documentazione sociale americana, l'intenso lavoro fotografico di Waris Grifi indaga con coerenza e meticoloso impegno le piccole e grandi mutazioni dei luoghi e del paesaggio in cui è cresciuto,scruta tra i caseggiati e dentro le case delle borgate operaie di Cotone e Poggetto, a Piombino, restituendoci l'anima di una comunità operaia che mantiene ancora forti legami con le proprie origini rurali. E lo fa senza fretta e con profondo rispetto nei confronti dei soggetti che indaga, con la delicatezza che solo chi ama conosce. Sembra aggirarsi in punta di piedi, per non disturbare lo scorrere operoso e tranquillo di questa umanità solida e solidale, ma lo sguardo è sicuro, la visione coerente e unitaria. Non balbetta e non cerca facili vie di fuga nella estemporaneità e "modernità" della sintassi fotografica. La visione è frontale, diretta, classicamente intramontabile.Violentati ogni giorno da immagini chiassose, superficiali e alla moda, che trafiggono lo sguardo senza nulla concedere alla riflessione e al silenzio, veniamo attratti dal lavoro di Waris Grifi proprio per questa silente e costante capacità di captare gli indizi e di restituirci, attraverso segni e sfumature, una dimensione quasi arcaica dei luoghi.
Si avverte nelle immagini di Grifi una solidità che sfida lo scorrere del tempo e impone allo sguardo di tornare e tornare a guardare, come se qualcosa dovesse succedere, come se luoghi e persone potessero da un momento all'altro rivelarsi. La grande forza di questo lavoro sta nella solidità dello sguardo, uno sguardo "antico", con cui l'autore congela la sua esperienza e la rende atemporale e universale. Forgiato sulla tradizione di grandi documentaristi quali Eugene Atget e Walker Evans ,a cui il lavoro rende esplicitamente omaggio, Grifi scruta i contorni di queste borgate operaie, si sofferma su piccoli particolari o su visioni d'insieme apparentemente dimesse, ci racconta di un'umanità laboriosa e dignitosa. Gli esseri umani sono presenti anche quando sono assenti. Tutto parla di loro, della loro condizione, delle loro aspirazioni. Una soffusa malinconia attraversa queste immagini di strade e case vuote ma l'autore, con straordinario controllo ed equilibrio, non la trasforma mai in angoscia. Nel racconto di questa città operaia - in cui la grande fabbrica pur rimanendo sullo sfondo è sempre presente - la malinconia acquista invece una dimensione matafisica diventando addirittura cifra linguistica.
Daniela Tartaglia
Testo di presentazione alla mostra Cotone e Poggetto di Waris Grifi, Settembre 2008 , Parlamento Europeo di Bruxelles
Pensieri in libertà
La fotografia, fin dall' esordio, è stata per me strettamente connessa alla poesia e ad un sentimento di contemplazione nei confronti dell'oggetto fotografato anche se, talvolta, nel corso del tempo ho abbandonato questa folgorante e primitiva intuizione per intraprendere altri percorsi di ricerca e di studio.
A quella intuizione che d'istinto, nella mia incoscienza giovanile, sentivo essere la strada giusta per vivere a tutto tondo, in anni più recenti sono finalmente e liberamente tornata, aderendo ad un percorso di crescita che ha a che fare più con il sentimento che non con la ragione o la riflessione critica.
Ed è stata indubbiamente l'esperienza analitica a permettermi di riunire tutti i pezzi del mosaico e ad innescare un processo di disvelamento ed innamoramento nei confronti del Reale che mi ha riportato prepotentemente alle mie radici, ai luoghi della mia infanzia versiliese, all'odore della terra bagnata e della salsedine .
A partire da quel momento ho smesso di fotografare gli umani e sono tornata alla terra, alle sue crepe, ai suoi segni, ai suoi meandri cominciando a sentire sempre più con chiarezza lo spirito dei luoghi, l'anima delle piccole cose, la loro sofferenza e la loro vivacità.
Iniziando soprattutto ad essere interamente coinvolta in quello che mi stava attorno e a capire come e quando esprimere tale coinvolgimento.
Questa esaltante scoperta- ben presto trasformatasi in duratura consapevolezza - mi ha permesso, negli anni successivi, di concentrare sempre di più le energie sul versante del "sentire" e di capire che - come dice James Hillman - la riflessione non è la sola forma che la coscienza può assumere.
Si è così precisata nel tempo un'attitudine dello sguardo, un'apertura immaginativa sui luoghi e sui dettagli che più intimamente mi toccano, che ha finito per diventare una forma di espressione imprescindibile dalla mia storia e dal mio vissuto.
Un'apertura immaginativa che ha stravolto completamente la mia vita, suggerendomi di intraprendere strade un tempo per me impensabili, che mi ha permesso di fare pace con la creazione e la possibilità di generare, che mi ha spinto a potenziare le immagini e a ridurre le spiegazioni.
Spiegazioni che oggi invece sentono il bisogno di uscire fuori, non tanto per delimitare o concludere un percorso quanto per consegnare alla mia piccola Bianca alcune sfumature della mia anima.
Fotografo da quando avevo vent'anni ma solo da adulta, dopo aver rimarginato una grande ferita, ho compreso le ragioni profonde che stanno alla base di questa prepotente necessità, le sue implicazioni con il silenzio e la spiritualità.
Ho capito che quello che mi intriga e avvinghia alla scelta della fotografia come strumento d'espressione non è tanto il bisogno di consegnare ai posteri traccia di una memoria quanto la possibilità di riuscire a trovare un momento di equilibrio e di compostezza, una fusione profonda con l'anima delle cose e dei luoghi.
Lo stesso atto del fotografare - al di là dei risultati ottenuti - è già per me un momento estremamente forte di introspezione e di riflessione, che mi consente di mettere ordine nei miei pensieri e di ritrovare la pacatezza cui aspiro e che solo in parte mi appartiene.
E' l'atto dell' indagine e della misurazione che mi affascina, l'attesa che implica la capacità di fare silenzio e di ascoltare affinché le cose rivelino la loro essenza e la loro anima.
Esattamente il contrario della filosofia che vuole la fotografia veloce, contemporanea, rapace, simulatrice.
E' alla lentezza e alla fusione dello sguardo, dell'anima e del corpo che, in definitiva, aspiro. Alla lentezza come mezzo per riuscire a entrare in contatto con il mio tempo e nucleo interiore, sempre più oppresso e frantumato dalla voracità dell'esistenza, dalla concretezza e dalla comunicazione contemporanea che uso senza che mi appartenga.
Quando fotografo faccio finalmente "tabula rasa" di tutto ciò che non è essenziale, di tutto ciò che appartiene solo in maniera accidentale alla mia vita. In quel momento so esattamente chi sono, da dove provengo e dove andrò. Riesco a vedere con chiarezza ciò che mi arricchisce e ciò che mi toglie forza ed energia.
Quando fotografo sento di padroneggiare uno straordinario mezzo di analisi interiore, una sorta di macchina della verità che mi incita a percorrere la strada del rigore e della precisione come mezzo attraverso cui assaggiare il bisogno adolescenziale di integrità, naturalezza e assolutezza.
ASSOLUTEZZA E NATURA
Assolutezza e natura: due elementi importanti del mio stare nel mondo, a volte con difficoltà ma sempre con lucida coerenza.
Assolutezza intesa innanzitutto come rifiuto prepotente del possibilismo rampante, del buonismo intriso di ipocrisia, dell'incapacità di schierarsi e di esprimere con franchezza la propria complessità e diversità.
Mi ritornano sempre più spesso in mente i versi con cui Paul Eluard si rivolgeva a Nusch, la donna amata. Come se nella rotondità di quella espressione poetica- una sorta di mantra - fosse nascosta la verità cui anelare.
Senza ombre né dubbi.
Dai gli occhi a quel che vedono
Visti da quel che guardano.
Sono passati più di venticinque anni da quanto la voce calda di uno dei miei compagni d'avventura scolpì a fuoco, nella mia anima, questa sorta di testamento morale e visivo eppure persiste, ancora oggi, lo stesso incantamento, la stessa sensazione di trovarsi di fronte a ciò che intimamente mi emoziona e può farmi vibrare.
E' indispensabile che al momento dello scatto persista questa certezza, che ogni cosa riesca a trovare il suo ordine, il suo equilibrio e la sua forma.
All'equilibrio estetico corrisponde per me, più esattamente, un ordine morale, ragion per cui non amo rimaneggiare in camera oscura immagini difettose e lascio sempre un bordino nero attorno all'immagine per sottolineare il fatto che l'inquadratura finale corrisponde esattamente a quella effettuata al momento della ripresa.
Quando fotografo amo essere da sola, avvicinarmi ed allontanarmi dal soggetto, circuirlo, guardarlo da più punti di vista per poi decidere cosa voglio da lui. Non scatto a raffica , calibro le energie anche perché ogni scatto presuppone per me una scarica di adrenalina, una tensione creativa che alla fine mi lascia quasi sempre esausta.
Sento di avere nei confronti dei luoghi e dei soggetti che fotografo una tensione che, in qualche modo, può ricondursi ad una sorta di estasi amorosa.
Una molla che scatta solo se ritrovo nel paesaggio le tracce di una presenza animistica, una voce che mi sussurra quello che il luogo è stato o vorrebbe essere.
E' solo nel momento in cui affiora questo meccanismo che decido di accettare la sfida e di capire, attraverso la fotografia, cosa vuol dire quel luogo alla mia anima, quali percorsi gli suggerisce di intraprendere.
Inizia allora una sorta di corteggiamento che mi porta e riporta innumerevoli volte sul luogo del mio turbamento, con un coinvolgimento interiore sempre più manifesto.
Cammino. Cammino molto quando fotografo cercando di scoprire quello che mi scuote e mi intriga.Non mi basta che un luogo sia interessante, deve appassionarmi, provocarmi un languore amoroso. Solo quando scatta questo meccanismo posso iniziare a fotografare, certa del risultato o comunque del trasferimento delle mie emozioni sull'emulsione fotosensibile.
E' una concentrazione quasi sempre fisica quella che mi fa fiutare e annusare un paesaggio, che mi spinge a fondermi con gli elementi naturali, sabbia, acqua, rami o rocce che siano.
Qualcuno - di cui non ricordo il nome - parlava di "ecologia del profondo" per descrivere il processo di nutrimento della nostra anima e della nostra immaginazione. Non so se sia questo il termine giusto per descrivere il mio percorso: io so per certo che cerco di fare in modo che la mia anima aderisca il più possibile alla materia, ai luoghi per arrivare a produrre poi forme immaginali.
E nel fare questo perseguo un ideale di bellezza, un'aspirazione alla bellezza che ha a che fare con il mondo della rivelazione e dell'analogia.
L'immedesimazione con la natura, gli alberi, le pietre è totale, forse perché fotografo i luoghi che conosco intimamente e che intimamente mi appartengono.
Dopo anni di assenza e di fuga sono tornata a fare i conti con le mie radici versiliesi, con l'immaginifico maturato durante l'infanzia e l'adolescenza, con le esperienze forti che mi hanno segnata.
Un lento ritorno a casa, contrassegnato dallo stupore di non aver dimenticato assolutamente niente dei luoghi dell'infanzia e di portare ancora impresse nella pelle, come un marchio genetico, le emozioni e le sensazioni della scoperta adolescenziale del mondo.
Ho ricordo di un rapporto fisico molto libero e molto forte con la natura: i bagni nell'acqua del fiume in estate e la scivolosità del muschio , la salsedine che mi arruffava i capelli e gli esami preparati in solitudine sulla spiaggia, al riparo di una cabina, il freddo umido dei miei risvegli all'alba, in attesa dell'autobus che mi avrebbe portata al liceo, allora in un altro paese.
Il rapporto con questa mia terra - che sono tornata a fotografare da adulta e in un momento particolare della mia vita di donna - non è dettato da motivazioni paesaggistiche o di indagine sociologica.
Non è il lavoro dell'uomo e neppure la grandiosità della cava ad affascinarmi quanto la potenza e la complessità del marmo, le sue forme imponenti e la delicatezza dei suoi scarti che, fin da piccola, hanno esercitato una forte attrazione su di me.
Allo spazio aperto della cava - una ferita aperta nel ventre della montagna, confinante con il cielo, che mi ha sempre fatto sentire inutile cosa a confronto della grandiosità del Tutto - ho sempre preferito lo spazio protetto e nascosto dell'argine, la vegetazione che cresce libera e fitta fra i blocchi di marmi e gli scarti delle lavorazioni.
In questi spazi chiusi, protetti, delimitati - una sorta di giardino segreto dell'anima - ho avvertito chiaramente la possibilità di far coesistere, senza troppo dolore, luci ed ombre.
Ho capito che potevo lasciar spazio al dubbio, alle sfumature, ai mezzi toni dell'anima e delle stampe fotografiche recuperando tuttavia il rigore e l'assolutezza all'interno dello spazio delimitato dall'inquadratura.
Dalle mie esplorazioni adolescenziali lungo il fiume Vezza deriva sicuramente una grande lezione esistenziale: l'imponenza dei blocchi di marmo, il loro stare, soli e vicini, rappresentano per me un esempio da seguire, un' indicazione affinché riesca a trovare anch'io la mia regola e la mia forza.
Credo che questo mio lavoro sia più di altri collegato intimamente al desiderio e al terrore insieme della nascita e della creazione. Creazione che include anche un oscuro senso di minaccia e di morte.
Ma abbandonarsi alla creazione vuol dire - come scrive una mia preziosa amica - "abbandonarsi alla gratuità dell'esistenza, sapere il dolore, la fatica eppure viverla questa nostra vita".
Vuol dire stare e cercare di vedere sempre più chiaramente ciò che siamo e ciò che ci circonda, sapendo che alla fine dobbiamo rendere conto solo a noi stessi e non ad altri di quello che siamo o non siamo diventati.
Vuol dire cercare di non frantumare e disperdere la propria interiorità nel rumore vacuo della mondanità perché esistere è più importante di apparire.
Ma è solo lottando per affermare il proprio diritto all'esistenza e la propria ricerca di senso che si esiste, che l'anima si libera e si libra nell'aria.
Daniela Tartaglia, 2005
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INTRODUZIONE AL CATALOGO "VOLTI POSITIVI. UN VIAGGIO IN SUDAFRICA PER RIPENSARE L'AIDS".FOTOGRAFIE DI SILVIA AMODIO. (Istituto degli Innocenti , 2007)
L'intenso progetto di Silvia Amodio rappresenta l'occasione per avviare alcune riflessioni sulla fotografia contemporanea caratterizzata sempre più dalla frammentarietà ed instabilità della rappresentazione, da un senso di precarietà e di provvisorietà che trova la sua giustificazione teorica nella evidente eterogeneità del sistema iconico e, più in generale, nell'incertezza del sistema della comunicazione e del nostro vivere quotidiano.
Da quando è stata messa in crisi, in modo profondo, la fiducia nella forza descrittiva dell'immagine fotografica e la sua possibilità di “raccontare”, la fotografia vive un momento epocale di grande incertezza. L'apologia del frammento e del quotidiano – in ragione del suo valore di esperienza - convivono con una generalizzata sospensione del giudizio e con la perdita del senso storico e narrativo.
Eppure, ogni tanto, ci sono autori che riescono a ricomporre in una visione globale la loro diversificata e frammentata esperienza individuale, che riescono ad articolare frasi complesse e non si limitano ad accostare, in maniera casuale e incerta, immagini che mettono in campo il banale e il trasversale. Autori che cercano di esprimersi usando un linguaggio forte e personale e si muovono con l'istinto e la consapevolezza di essere dei comunicatori.
Si avverte, quando ciò succede, che lo sguardo si allerta in consonanza ad una ricerca interiore, che il progetto di comunicazione si articola e si affina nel tempo facendosi linguaggio coerente.
Non capita spesso di incontrare fotografi che cerchino di comunicare delle emozioni, di stabilire con noi, fruitori finali, un contatto ravvicinato ma quando succede è sempre un incontro esaltante, la riconferma di uno stato di grazia. Costringono lo sguardo a fermarsi, a riflettere, ad andare dentro l'immagine, a fantasticare sulla persona che, dietro l'obiettivo, ha prodotto in noi questo turbamento.
Le numerose immagini che ci circondano troppo spesso si fermano a registrare quello che c'è, quello che la macchina ha ripreso. Le numerose immagini che ci circondano troppo spesso descrivono solo quello che l'occhio ha visto senza operare un trasferimento di senso e di significato. Registrano senza indagare. Si fermano alla superficie delle cose e delle persone, al provvisorio e al diaristico contribuendo così a rendere sempre più globale il "Grande fratello" che è in noi e tra noi.
E' vero che la società dell'immagine è così complessa e frammentata che diventa difficile per il fotografo contemporaneo portare avanti un discorso coerente ed unitario, così come è vero che l'accesso ai dati e alle immagini permesso da Internet rende sempre più labile il senso di appartenenza e di coerenza.
Eppure ci sono autori che, pur immersi in questo contraddittorio e provvisorio contesto, riescono a integrare la frammentarietà in un sistema complesso, riescono a comunicare a trecento sessanta gradi la loro visione personale, politica e sociale.
Penso al lavoro di autori contemporanei quali Christian Boltanski, Louis Gonzales Palma, Dieter Appelt, Loretta Lux, Joan Fontcuberta, Gregory Crewdson o i coniugi Becher.
Cos'è che inchioda lo sguardo alle immagini di autori fra loro così diversi, alcuni in bilico tra installazione, bodyart e set cinematografico, altri fautori della catalogazione sistematica dell'architettura?
Credo che una risposta possibile sia la coerenza, la progettualità potente che, come un filo rosso, attraversa le immagini di autori così diversi per età, cultura, contesto sociale ma simili nel perseguire con determinazione quella che un tempo si definiva "ricerca di uno stile".
Oggi questo anelito alla coerenza e alla progettualità rischia di risultare fuori moda, troppo rigido e arcaico, dunque apparentemente "non contemporaneo".
Eppure coerenza e ossessione dello sguardo sono, di fatto, gli elementi che più di altri definiscono un autore.
L'innovazione o la sperimentazione tout court , da sole non sono sufficienti. Se la ricerca artistica si ferma all'espediente, al sensazionale o viceversa all'ornamento, si inficia in modo profondo la purezza dello sguardo, si trasformano gli autori in "vetrinisti" dell'arte. Senza contenuti e senza progettualità di lunga durata le immagini, anche se esteticamente belle, producono solo dei balbettii. La vocazione estetica da sola non basta a consegnare l'autore alla sfera dell'arte.
Silvia Amodio è una fotografa "di razza". Lo avevo intuito già alcuni anni fa quando vidi per la prima volta i suoi straordinari ritratti di animali e me lo hanno riconfermato, in tempi più recenti, le immagini dei suoi volti d'Africa.
Ricordo che allora pensai: se è riuscita a concentrare in un'unica immagine, secca ed essenziale, quello che pensa di una papera o di una zebra figurarsi se può rifuggire dal confronto con l'essere umano. Prima o poi ci arriverà.
E difatti, alcuni anni dopo il nostro primo incontro, il caso e le vicende della vita l'hanno portata a raccontare la tragedia del popolo sudafricano, uno dei più colpiti dal virus dell'HIV.
In viaggio in Sudafrica per completare un reportage sugli animali si imbatte casualmente in un campo profughi. Il coinvolgimento con quella realtà è talmente forte e totale da farle dimenticare gli impegni che l'attendono in Italia. Rimane in quel campo più di un mese, divorata da una febbre che la spinge a raccontare in un unico fotogramma quello che pensa del soggetto e anche di sé, del suo rapporto con la malattia e con la morte.
E' l'inizio di un progetto politico che, grazie all'incontro successivo con la scrittrice sudafricana Sindiwe Magona, si rafforza nel tempo spingendola a tornare a Città del Capo per raccontare, attraverso le immagini, il dramma di un popolo.
Il risultato è un' emozionante serie di ritratti, realizzati anche grazie alla collaborazione della Regione Toscana e dell'Azienda Sanitaria Firenze. Con estrema lungimiranza entrambe le istituzioni hanno intravisto nel lavoro di Silvia Amodio una possibilità per riportare l'attenzione della gente su una tematica così complessa.
L'evento espositivo si qualifica anche per le caratteristiche evocative del progetto di allestimento, orchestrato per trasportare gli spettatori nell'universo interiore dell'artista, il cui obiettivo primario non era quello di riproporre una mera documentazione della realtà sudafricana ma di creare un momento di riflessione.
La potenza e coerenza del linguaggio visivo utilizzato da Silvia Amodio è tale da costringere il nostro sguardo a fermarsi, a riflettere, ad andare dentro all'immagine.
Lentamente, ma con forza, i suoi ritratti fluiscono dentro di noi e si radicano. Persistono, raffiorano, talvolta consolano.
Si percepisce, dietro l'obiettivo, la forza straordinaria che muove questa donna minuta ma dotata di grande personalità.
Non scatta a raffica - Silvia - né tenta ammiccamenti al reportage o alla costruzione narrativa interna all'immagine.
Il suo modo di fotografare si inserisce nella tradizione classica, a metà strada fra la visione etnografica dei ritrattisti ottocenteschi e gli intenti classificatori della fotografia istituzionale.
Scatta in medio formato per esaltare le qualità formali della materia, in uno stupendo bianco e nero che contribuisce, insieme alla luce, ad assolutizzare i suoi personaggi e a renderli delle icone.
Nei suoi ritratti, a sfondo bianco, le qualità materiche della superficie rivestono una grande importanza poiché sono di fatto le uniche chiavi di accesso per individuare lo stato sociale e culturale del soggetto.
A prima vista, questa impostazione formale nella costruzione dell'immagine, potrebbe ricordare i ritratti realizzati negli anni '60 da Richard Avedon, noto ritrattista e fotografo di moda americano, recentemente scomparso. In realtà le differenze tra i due autori sono molto più profonde e non riguardano meramente la sfera del sensibile bensì il diverso rapporto stabilito con l'”altro”.
I soggetti che abitano le fotografie di Avedon sono spesso congelati in pose di estraniante isolamento e desolazione poiché è un'umanità dolorosa quella che mette in scena la propria commedia umana. Un'umanità spesso colta e benestante che assume consapevolmente sulle proprie spalle il peso del mondo e della propria interiorità “disturbata”.
Nei ritratti di Silvia Amodio aleggia invece un'altra atmosfera. Il suo modo di porsi nei confronti del soggetto ritratto racconta una grande empatia e familiarità, il fascino potente che queste persone esercitano su di lei. Si avverte una grande energia e la capacità di cercare intensità e consapevolezza di una posa attraverso pochi scatti essenziali.
Si avverte, soprattutto, la grande capacità della fotografa di cogliere l'identità immaginaria , l'espressione della verità di un volto, la sua “aria”. Quell'attributo - più morale che intellettuale - che si trasmette dal corpo all'anima e che solo i grandi ritrattisti riescono a cogliere.
“Se per mancanza di talento o per disavventura – scriveva Roland Barthes ne La Camera chiara, il suo ultimo saggio – il fotografo non sa dare all'anima trasparente la sua ombra chiara, il soggetto muore per sempre.”
L'analisi dei provini ci dice molto della capacità di un fotografo di cogliere la sintesi. E i provini di Silvia Amodio raccontano di un notevolissimo senso della composizione, di una straordinaria capacità di tenere insieme dettagli e contenuti.
L'intensità dello sguardo del soggetto, rigorosamente in macchina, non viene mai sacrificata per ricercare un equilibrio formale o un accorgimento grafico. Con un colpo d'occhio unitario l'artista riesce a tenere insieme questi molteplici aspetti e a incatenare il nostro sguardo ai suoi splendidi ritratti.
I suoi soggetti - donne, anziani, uomini, bambini colpiti dal virus HIV - appaiono straordinariamente positivi come sottolinea il titolo del progetto che, pur alludendo alla loro malattia, vuole di fatto riconfermare un modo diverso di essere e di affrontare la malattia nelle popolazioni colpite dal sottosviluppo.
Attraverso la scelta di decontestualizzare i suoi personaggi utilizzando sfondo bianco e illuminazione diffusa, Silvia Amodio ha voluto trasformarli in icone, ha voluto fermare le loro difficili vite e dare loro dignità.
Evitando di mostrarci i malati terminali ha voluto soprattutto insinuare un dubbio ed una speranza insieme.
Belli, sorridenti, rilassati. E' possibile -ci siamo sicuramente chiesti- che siano malati? E' possibile che posino davanti all'obiettivo così facilmente, senza mettere in posa la tragedia della loro condizione, della loro malattia ?
Si, è possibile per chi non si aspetta nulla dal futuro e gioisce di piccole cose, per chi non conosce le cosiddette malattie etniche del capitalismo - anoressia e ipocondria in testa - e per di più crede ancora al potere demiurgico della fotografia di "sconfiggere" l'Oblio, di congelare il tempo e consegnare alla Storia una traccia della propria esistenza.
Non a caso la scrittrice Sindiwe Magona, con versi strazianti, esorta le persone a scattare fotografie, a testimoniare e a mantenere viva la memoria storica di un genocidio organizzato.
(...)Fotografate i figli
fotografateli mentre giocano
fotografateli mentre piangono
fotografateli mentre leggono il libro preferito
o fanno le loro faccende. Ma
fate presto, prima che sia troppo tardi.
(...)
Sindiwe Magona, “Please, Take photographs”
Daniela Tartaglia
Oggetti risplendenti .... si mostrano all'occhio nostro circondati di nuovi raggi .(Galileo Galilei, Dialogo sopra i massimi sistemi).Testo di presentazione della mostra, Museo G. Galilei, Firenze, 2008
Le origini della fotografia sono strettamente connesse alla "meccanizzazione del pensiero", un' aspirazione che, a partire dal Seicento, ha percorso tutta la cultura scientifica del mondo occidentale.
Senza le invenzioni di Pascal,Leibnitz e Galileo non sarebbe stata possibile la realizzazione di uno strumento capace di registrare le immagini del mondo e, dunque, la "scrittura con la luce" si pone come filiazione diretta di un pensiero tecnologico che aspira alla meccanizzazione e al potenziamento della visione.
La fotografia peraltro è strettamente connessa anche al tema del tempo, dell'archivio e della memoria, paradigma concettuale che la accomuna al museo come contenitore di cultura e memoria, luogo istituzionale della vocazione catalogatrice del pensiero occidentale moderno.
Ciononostante le immagini presenti in mostra sembrano non tener conto in alcun modo di queste strette relazioni per affermare invece l'antica idea platonica dell'immagine come sembiante, dotata di un'esistenza che è tutt'altra cosa dall'essere rappresentato .
La vocazione catalogatoria della fotografia - strumento documentale per eccellenza del pensiero positivistico- viene negata a favore di una ricerca che pone l'immagine sulla via di un'esistenza soggettiva, collegata alla coscienza individuale.
La suggestione fotografica che ne deriva, di matrice surrealista, è ancora più forte se consideriamo che trae ispirazione da un luogo tradizionalmente adibito alla conservazione e catalogazione di manufatti scientifici.
Evidentemente i fotografi invitati a indagare lo spazio museale hanno preso le distanze dalle astrazioni del razionalismo o forse hanno avvertito il daimon del luogo, la sensibilità e l'immaginazione creativa che l'hanno abitato, subendone il fascino potente.
Le opere prodotte dialogano con gli oggetti della scienza senza mai cadere nella mera documentazione. Non abitano uno spazio vuoto che si può misurare, catalogare ed occupare ma, in linea con una concezione animistica e pagana dei luoghi, indagano, scrutano nelle pieghe dei manufatti e delle teche, amplificano la suggestione lirica e metafisica, frantumano la precisione dei contorni e della materia.
Daniela Tartaglia
IL CORPO ESPOSTO
Il ventesimo secolo segna un grande passo in avanti nella liberazione del corpo e nel suo avvicinamento alla natura. L'incipit si ha già nei primi del Novecento con la nascita di scuole e palestre -ove praticare la "cultura fisica", introdotta in Europa da Edmond Desbonnet - che contribuiscono a diffondere un nuovo modello estetico basato sulla perfezione del corpo e su una nuova libertà e dimestichezza.
Negli anni fra le due guerre mondiali l'ampia diffusione dello sport, supportata dai regimi totalitari e da una massiccia propaganda che insiste nella esaltazione fotografica del corpo umano - mostrato sempre sano, bello e atletico - porta alle estreme conseguenze questo ideale estetico: in Italia gli annuari della GIL (Gioventù Italiana del Littorio) pubblicano sofisticati servizi fotografici di manifestazioni ginniche dove si esaltano, senza reticenze, la bellezza fisica e le sue possibilità funzionali.
Ai corpi celati dagli avvolgenti costumi da bagno del secolo precedente, ai busti e crenoline si contrappongono adesso i corpi agili e reattivi di una gioventù che scopre il proprio corpo e non teme l'esposizione allo sguardo altrui. Il pudore vittoriano lascia il campo ad una nuova libertà di costume sostenuta dalle mutate condizioni di vita e di lavoro, dalle trasformazioni urbanistiche e da una cultura sempre più laica e liberalizzata.
A tale cambiamento ha contribuito, in gran parte, il processo di emancipazione femminile che ha permesso alla donna di entrare a pieno diritto nella sfera lavorativa e sociale, imponendo nuove e più agili norme di comportamento ma anche il mutato clima storico ed economico degli anni della ricostruzione e del boom economico in cui si assiste ad una vera e propria liberazione del corpo da parte di una gioventù che vuole vivere con spensieratezza ed ottimismo per dimenticare gli orrori della guerra.
Gli anni Sessanta caratterizzati dalla rivoluzione sessuale, dalla contestazione femminista del sessismo, dal nudismo e dalla body art saranno un punto di non ritorno nell'avvicinamento del corpo alla natura e, parallelamente, nella costruzione del culto del corpo come luogo massimo della possibilità di disporre di sé.
E' in quegli anni che si definisce appieno la costruzione e rappresentazione mediatica del corpo grazie all' attenzione di cui si rivestono i gesti, gli atteggiamenti, le posture, le forme di messa in scena sociale del Sé.
Il corpo è - come sostengono eminenti sociologi, Durkheim in primis - un sistema di segni ed indicatori che rimandano al sociale stesso. Ovvero un insieme di indicatori sociologici potenziali che permettono di leggere dinamiche, strutture, eventi, trasformazioni e conflitti sociali attraverso i corpi. Incorporando il sociale, il corpo si rivela un ricettore sensibilissimo degli accadimenti del sociale stesso (... )
Nel volgere di un secolo il corpo finisce così per diventare un tratto naturale dell'identità e dell'intimità, uno strumento di esplorazione di sé. Grazie alla diffusione di massa della macchina fotografica che ha permesso ad un numero sempre più grande di persone di fissare e certificare momenti particolari ed intimi della propria vita, il corpo diventa sempre più una risorsa forte per l'identità individuale, un modo per segnare la propria presenza nel mondo.
In quanto ricettore sensibile al cambiamento il corpo finisce per assorbire, nel corso del tempo, i nuovi valori da vendere della società del consumo, gli ideali di bellezza, giovinezza, salute ed erotismo che il sistema produttivo ha sostituito allo sfruttamento del corpo e alla sua forza lavoro.
La funzione esercitata dai media e l'influenza della grande fabbrica dei sogni, ovvero del cinema di stampo hollywoodiano, è stata sicuramente determinante nella creazione di quel di processo di estensione della dimensione estetica all'intero sistema sociale che il sociologo Vanni Codeluppi ha acutamente definito " vetrinizzazione sociale".
Fotografia, cinema e televisione hanno infatti avvicinato alle persone comuni i corpi e i volti dei personaggi importanti, dei cantanti, degli attori e degli idoli sportivi contribuendo a desacralizzarli e ad attivare il processo di identificazione dello spettatore, convincendolo che costoro nel privato sono simili a lui.
Con la rinuncia alla privacy, da parte dei nuovi soggetti emergenti, la vita finisce per diventare una sorta di palcoscenico, un set teatrale e cinematografico nel quale mettere in scena l'agire umano appositamente per la registrazione fotografica o per la videocamera.
Tutto ciò non sarebbe stato possibile però se gli individui non avessero interiorizzato in maniera potente un modello di comunicazione che ha le sue radici nel Settecento e che prende ad esempio il modello di valorizzazione che i negozianti cominciarono ad applicare alle merci nelle loro vetrine.
La vetrina - scrive Codeluppi - con la sua trasparenza che crea relazioni, è una perfetta metafora del modello di comunicazione che tende oggi a prevalere. Se l'individuo si mette in vetrina, si espone allo sguardo dell'altro e non si può più sottrarre a tale sguardo. Vetrinizzarsi" non è un semplice mostrarsi, che comporta la possibilità di trattenere qualcosa per sé. E' un atto che implica un'ideologia della trasparenza assoluta, implica cioè l'obbligo di essere disponibili a esporre tutto in vetrina. Non è più possibile lasciare sentimenti, emozioni o desideri nascosti nell'ombra.
Le implicazioni psicologiche e sociali connesse alla vetrinizzazione sono assai profonde e preoccupanti anche perché tale processo di esposizione si sta sviluppando potentemente in tutti i principali ambiti della società, anche in quelli connessi al corpo e all'identita. Persino in quello estremo della morte.
L'esposizione a decine e decine di vetrine in cui l'individuo si trova continuamente ad agire genera una sensazione di imperfezione ed inadeguatezza finendo per rendere le persone sempre più insicure ed indifese: essere continuamente esposti significa infatti mostrare ciò che è più privato, senza possibilità alcuna di trattenere qualcosa per sé.
Daniela Tartaglia
LA COMMEDIA UMANA
Con l'avvento del XX secolo alle immagini in posa realizzate all'interno degli atelier fotografici si susseguono e si contrappongono le animate visioni realizzate dai dilettanti che possono contare, grazie alle innovazioni tecniche, su apparecchi portatili di piccolo formato, su lastre alla gelatina ai sali d'argento di uso immediato e successivamente su pellicole in rullo, fabbricate industrialmente e facili da usare.
E' indubbio che la nascita e lo sviluppo dell'industria fotografica (Kodak, Lumière, Lamberti & Garbagnati , Agfa, ecc) abbia avuto notevoli ripercussioni sulla evoluzione del linguaggio fotografico, permettendo a fotoamatori e professionisti di svincolarsi da preoccupazioni di tipo estetico, per realizzare invece documenti spontanei sulla vita familiare e sociale del tempo. Tale cambiamento di rotta non sarebbe però stato possibile se un nuovo concetto di verosimiglianza - quello dell'istantanea - non avesse trovato una corrispondenza profonda nel contesto economico e sociale caratterizzato da un benessere ed una civiltà senza precedenti che fanno da sfondo a viaggi, gite in barca e in montagna, balli e vacanze al mare, con cui la borghesia europea dei commerci e delle professioni, unitamente al nuovo ceto medio degli insegnanti e degli impiegati, celebra l'era operosa e pacifica della Belle Epoqué.
La fotografia si insinua così nelle pieghe del tessuto sociale, indaga i riti collettivi e familiari, testimonia l'esistenza di milioni di persone e i rapporti che intercorrono fra loro, perpetua nel tempo la continuità dell'organizzazione familiare lasciando spazio a emozioni, desideri, attese, gioie, piccoli dolori.
I sentimenti, rigidamente contenuti nell'arida precisione della fotografia ottocentesca - così come ebbe a definirla lo scrittore e fotografo Luigi Capuana - strabordano dalle immagini e si consegnano alla storia.
Ai fondali dipinti e alle scenografie artefatte si sostituiscono adesso i nuovi protagonisti: l'ambiente e la vita di tutti i giorni con i suoi usi e costumi, con i suoi riti sociali. La fotografia diventa così lo strumento per eccellenza attraverso il quale immortalare, non solo il proprio passaggio nel mondo, ma il proprio rapporto con il sociale e il contesto ambientale e urbano.
I ritratti non sono più - come un tempo - realizzati negli studi dei fotografi ma all'interno delle abitazioni dei nuovi amateur o negli spazi all'aperto in cui si mette in scena l'agire della "commedia umana". Ritratti di gruppo, di amici in vacanza, di scolari e di militari si affiancano - e spesso sostituiscono - ritratti individuali e familiari, ad indicare una nuova socialità ed un modo diverso di stare insieme.
Sennonché lo straordinario sviluppo economico e sociale che caratterizza il primo decennio del Novecento verrà interrotto dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale e dalle successive tensioni sociali che alimenteranno il mito della vittoria mutilata e favoriranno l'affermazione del partito fascista.
Il" bagno di sangue" e il dopoguerra sanciranno, peraltro, la crisi del mondo liberal-borghese e la frattura profonda tra individuo e collettività di cui le cosiddette avanguardie storiche - espressionismo, dadaismo e surrealismo - si faranno interpreti nelle arti figurative e in letteratura, portando alle estreme conseguenze il disagio di vivere e il senso di estraneità dell'uomo rispetto al mondo naturale e storico.
All'interno di una vasta produzione amatoriale che privilegia il rapporto della fotografia con l'istante, regalandoci autentici ed immediati documenti visivi dell' Italia della prima metà del Novecento - personaggi sorpresi per strada, nei nuovi spazi aperti al passeggio e all'incontro fra le persone che le innovazioni urbanistiche avevano favorito - perdura, tuttavia, la tradizionale iconografia del ritratto fermo e posato.
E' vero che quasi tutta la fotografia amatoriale e professionale della Prima Metà del Novecento si adopera per inserire i modelli nel contesto ambientale, contribuendo ad arricchire l'immagine di molteplici valenze storico-sociali. Ciononostante rimane un ampio margine per coloro che ancora credono nella posa come valore intrinseco all'idea di ritratto e perciò rifuggono dall'istantanea e dalla trasgressione dell'immagine presa al volo.
Anche quando la diffusione delle pellicole in rullo e la produzione in serie di macchine di medio e piccolo formato - Rolleiflex 6x6(1929) Leica (1925) - accorceranno i tempi di posa influendo notevolmente sulla regia del ritratto e sulla sua naturalezza, maggiormente consona alle possibilità aperte dall'istantanea, l'attitudine del modello rimarrà invariata. Di fondo permarrà un atteggiamento che individua nella posa - e non nella fugacità dell'istante - la vera essenza dell'esserci e dunque del ritratto.
Ma cosa significa optare per l'assolutezza della posa in un momento storico che vede la diffusione di massa della fotografia e, per contrasto, la nascita delle avanguardie artistiche, la rottura di statiche regole della visione e la possibilità di nuove libertà narrative?
Cos'è che spinge il fotografo, ma molto spesso anche lo stesso soggetto fotografato, a cercare di catturare attraverso la posa ciò che è permanente e non fuggevole ?Come è possibile che, nonostante la nascita del cinema, le esperienze della fotodinamica futurista, la messa in discussione della prospettiva rinascimentale come metodo di lettura dello spazio, i soggetti ritratti continuino a guardare in macchina, a cercare franchezza e solennità come elementi peculiari della rivelazione del Se?
Sicuramente, negli anni del regime fascista, l'Italia si trova a vivere un periodo di autarchia culturale che favorisce l'arroccamento su posizioni e tecniche tradizionali e non le permette affatto di godere del confronto con le novità straniere. Pertanto i fotografi professionisti al pari dei fotoamatori sono facile preda del dominio provinciale dei vecchi gruppi dediti alla fotografia artistica. Tuttavia queste spiegazioni da sole non sono sufficienti a spiegare il fascino perdurante dell'immagine in posa, che contrappone alla simultaneità dell'informazione l'assolutezza di un momento rivelatore.
Una convincente risposta a questo interrogativo ci viene da Diego Mormorio che ha acutamente sottolineato in uno dei suoi saggi: "il tempo della posa necessario al ritratto è fra i pochissimi momenti in cui l'uomo ocidentale sfugge al vizio che segna la sua vita e che è perfettamente definito in queste parole di Pascal: Il presente non è mai il nostro scopo; il passato e il presente sono i nostri mezzi; soltanto l'avvenire è il nostro scopo. Per questo non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e, disponendoci sempre a essere felici, è inevitabile che non lo diverremmo giammai".
Sta in questa persistente voglia di esserci, per combattere la vanità dell'essere espressa dal nichilismo dell'occidente, uno dei motivi di fondo della intramontabilità del ritratto in posa.
Daniela Tartaglia
The land that remains di Federico Busonero
Sono molto felice di presentare The land that remains , il lavoro di Federico Busonero sulla Palestina, in questa sede prestigiosa. Lo sono per diversi motivi : in primo luogo perché la questione della terra palestinese è un problema irrisolto e in stand by sul quale si dovrebbe tornare a discutere , in secondo luogo perché è l'occasione di far conoscere ed apprezzare l'approccio di Federico Busonero anche a chi non è addentro le problematiche culturali e filosofiche della fotografia. In ultimo perché il fatto che il lavoro sia stato commissionato a Federico dall'Unesco permette di avviare una riflessione sulle campagne di documentazione del territorio e sulle loro finalità , sul senso del fotografare stesso, sulla naturalità dello sguardo o pretesa oggettività della fotografia.
Federico è un fotografo di fama internazionale , toscano di origine anche se vive da diversi anni negli Stati Uniti . Numerosi sono i riconoscimenti pubblici e le pubblicazioni che accompagnano la sua attività professionale e di ricerca ma , sicuramente, questa pubblicazione sulla Palestina rappresenta il suo testamento visivo, l'oggetto in cui il suo personalissimo sguardo riesce a riappropriarsi di una sottile e pensosa dimensione psichica sebbene l' iter progettuale rimanga rigorosamente all'interno di una lettura dello spazio che esalta l'aspetto descrittivo della fotografia.
Federico Busonero è un autore , o meglio un intellettuale, che ama porre la fotografia in relazione con altre discipline , in particolar modo con la letteratura , la poesia, la storia, l'archeologia, la storia dell'arte. Un autore che si interroga continuamente e si chiede se sia possibile una rappresentazione del mondo. Nel suo smarrimento, nel suo interrogarsi ha però una grande certezza : il potere dell’immagine fotografica risiede precisamente nel non visto, nel non-detto, al di là del contesto del fatto. Al pari della poesia, le fotografie - scrive Federico- sono in primo luogo tracce, ricordi di esperienze. Esse sono evocative, piuttosto che narrative. Nell’apprendere quello che ci comunicano, scopriamo che in esse esistono altre possibilità.
Per Federico Busonero l'atto fotografico come metodo di indagine , come approccio esistenziale , esperenziale è dunque una urgenza forte .
Questo è un aspetto particolarmente interessante da sottolineare e sul quale riflettere , anche collettivamente , per evitare di continuare ad essere sommersi da immagini didascaliche, descrittive, superficiali, acritiche, cartolinesche . Usare la fotografia come strumento di consapevolezza e di interrogazione per poter arrivare a indagare la complessità della realtà e comprendere il proprio tempo esistenziale in rapporto a quello della storia è il solo modo per poter capire il senso dei luoghi , interrogarsi sull'idea stessa di paesaggio e sulle sue modificazioni e criticità.
Le opere di Federico Busonero sono caratterizzate da una fisicità molto forte, derivante dall'uso del medio formato, dalla scelta di usare una notevole profondità di campo e una luce morbida, poco contrastata, che evidenzia la qualità dei dettagli . Le sue immagini hanno anche una qualità " altra" che deriva dalla capacità del fotografo di sentire, di attendere una "certa luce", una luce capace di esaltare la "sacralità" del paesaggio palestinese, la sua identità profonda ma anche di mettere in evidenza la precarietà di questa identità , fatta di rovine abbandonate, di luoghi distrutti dal conflitto, di paesaggio desertificato perché non più coltivato e curato dalla mano dell'uomo.
Nonostante questa frammentarietà, questa incoerenza , nonostante la follia umana, l'identità di questa sacra terra - che è la Palestina - rimane e si impone allo sguardo e alla coscienza perché persiste l'anima del luogo , perché ancora gli dei non l' hanno abbandonata del tutto.
Ci sono poi altre qualità nel lavoro di questo fotografo che sono a mio avviso molto interessanti , precise scelte linguistiche e ideologiche, politiche direi , come il fatto di fotografare senza la presenza umana, di catturare la sofferenza di un popolo senza ricorrere all'abusata immagine degli scontri e del conflitto arabo- israeliano , ribadendo e rinforzando così questa sensazione di precarietà e abbandono . Questa scelta - non facile considerando che la Palestina è luogo di un conflitto oltre che un paese ad alta densità demografica e che Federico Busonero ha dovuto aspettare a lungo affinché nel suo campo visivo non comparisse nessuno - non significa infatti che il fotografo sia interessato solo all'aspetto geologico o archeologico del paesaggio. Tracce della storia passata e recente, tracce di una avvenuta frattura si intrecciano nelle immagini di Federico Busonero; resti di insediamenti romani, delle conquiste arabe e delle comunità cristiane coesistono assieme a frammenti che ci dicono dell'occupazione israeliana , della creazione di "infrastrutture" connesse alla creazione del muro, dell'abbandono delle tradizionali pratiche agricole nei territori occupati , della quotidianità e della contemporaneità.
Il merito profondo delle fotografie di questo autore sta dunque nell'equilibrio che riesce a stabilire fra bellezza e criticità, tra forma e contenuto , tra interpretazione e storia senza cadere mai nella decorazione e nell'estetizzazione. Sta nell'usare la fotografia come sguardo indagatore, come strumento che non trasmette verità ma può rivelare la via per giungervi.
Daniela Tartaglia
Testo di presentazione al Consiglio Regionale della Toscana. 25 novembre 2016
Diventa fiume è il percorso visivo ed emotivo che ho compiuto lungo le rive del fiume Arno, alla ricerca delle forme significanti che resistono alla desertificazione e alle offese perpetuate dalla mano dell’uomo; una riflessione sul fiume come organismo vivente e come metafora della condizione umana, del suo esistere, soffrire, fluire ed eterno cercare.
Il progetto nasce da un intenso lavoro di scavo e di conoscenza del territorio toscano attraversato dal fiume e dall’utilizzo della fotografia come atto di indagine e misurazione, strumento di sottrazione ed eliminazione di tutto ciò che non risulta essenziale, inerte allo sguardo, di tutto ciò che nelle immagini non “brucia”.
Diventa fiume è riflessione sui metodi di rappresentazione del visibile, sulla domanda di realtà e verità, sulla perdita dell’allusione e dell’illusione nell’epoca dell’ipertecnologia e dell’ipervisibilità.
Non solo strumento di descrizione del mondo ma sempre più “avventura del pensiero e dello sguardo”, la fotografia può (e deve) essere usata come straordinario dispositivo antropologico di cui riappropriarsi per esplorare la propria realtà psichica, per alludere al mistero presente nella realtà delle cose e dentro di noi, per produrre – come scrive Jean Baudrillard – un’“intensità”, il desiderio e la nostalgia per qualcosa di più primitivo, qualcosa di più radicale dell’estetica stessa.
Daniela Tartaglia