- Giorgio Van Straten, Trucchi di radianza, 1994
- Roberta Valtorta, Trucchi di radianza, 1994
- Roberta Valtorta, Appartenenze, 1995
- Jean - Claude Lemagny, Esser presenti, 1998
- Lella Ravasi Bellocchio, Materia emozionata, 1998
- Roberto Mutti, Appartenenze, Fotopratica Immagini, 1999
- Annamaria Amonaci, Col segno di poi, 2004
- Lella Ravasi Bellocchio, Polvo sere' mas polvo enamorado, 2005
- Roberta Valtorta, Forme somiglianti, 2005
- Giovanna Chiti intervista Daniela Tartaglia /Parlando con voi, Edizioni D.Montanari , 2013
- Giovanni Fontana Antonelli, Pietra prima dell'acqua, 20017
- Rassegna stampa
Ci sono giardini improvvisi, che compaiono in mezzo ai palazzi, nascosti e preziosi, come privilegi. Gli ampi portoni sulla strada ti invogliano a entrare. Ma spesso un portiere cortese ti rimanda indietro. Ci sono giardini belli e giardini brutti. Giardini di aiole regolari o di confusione. Giardini lasciati crescere o tenuti a freno. Dipende dai gusti. Ci sono giardini grandi, ovvero parchi pubblici, dove la gente cammina, gioca quando non è proibito, si distende a prendere il sole. E altri giardini grandi, chiusi e riservati. Proibiti. Tutti questi giardini possono essere descritti.
Tutti questi giardini possono essere dimenticati. Poi ci sono i giardini segreti. I giardini sognati. Inseguiti in mezzo alle pagine dei libri, insieme ai bambini che dovevano scoprirli. Giardini molto più affascinanti dei fiori esotici, dei laghetti, delle siepi scolpite. Sono i giardini della memoria. Bisogna immaginarli. Saperli inventare di nuovo. Se provate ad afferrarli, a spiegarli, fuggiranno via. Se invece provate a raccontare una storia, quelli, lentamente, ritorneranno, come bestie verso una sorgente dalla quale la vista di un uomo li ha fatti scappare. Le storie si possono raccontare. E a volte sono fotografie. Fotografie di luci e ombre. Di nebbie leggere. Di riflessi e opacità. Di selve profonde o di rose bianche. Fotografie come sentimenti, come sogni, come ricordi. Come giardini segreti, appunto. Le storie di Daniela, per esempio.
Giorgio Van Straten.
Testo di presentazione al catalogo della mostra Trucchi di radianza, 1994
È, quella di Daniela Tartaglia, una fotografia della contemplazione. Non appartiene a nessuno dei generi che ci siamo abituati a considerare “classici” in fotografia: non è reportage, non è, come potrebbe forse sembrare, fotografia di paesaggio né intende “raccontare” nulla. La natura, infatti, i rami, le foglie, gli intrecci del bosco o della serra, sono per Daniela Tartaglia, soprattutto elementi per misurare il suo rapporto con la realtà attraverso l’osservazione di forme, materie, segni molteplici costruiti dalla natura o lasciati dal tempo. In queste fotografie non vi è ricerca dell’istante, non vi sono rivelazioni improvvise: vi è, semmai, lento rispecchiamento, talvolta stupito, in parti del mondo incontrate.
I luoghi prediletti, cercati per essere incontrati, sono quelli dove la natura vegetale, libera o coltivata, è al lavoro – come le forme del pensiero, del ricordo dell’immaginazione, possiamo dire, sono al lavoro, sempre, dentro di noi: come in un bosco, come in una serra. Daniela Tartaglia costruisce spesso confronti fra forme astratte e forme invece realisticamente riconoscibili, come se le prime emergessero dalle seconde, oppure al contrario ne costituissero il fondamento, oppure ancora come se in questi confronti si realizzasse la convivenza di due mondi diversi, uno più reale, legato alla vita quotidiana, e uno meno reale, attinente alla vita interiore.
Luce e ombra giocano in questi confronti fotografici fra interno ed esterno della persona un ruolo fondamentale, funzionando come elementi evocativi che aiutano lo sguardo a procedere. Ma è proprio la lentezza del fissare, del contemplare che consente allo sguardo di compiere il suo lavoro di tramite fra i due mondi. E forse proprio la lentezza, la durata, sono gli elementi di forza della fotografia nella dura veloce civiltà contemporanea che molto spesso agita le forme, le confonde, impedisce al pensiero di aderire alla realtà. Proprio per la disciplina che impone allo sguardo la fotografia può divenire, in questo senso, sostegno dell’esperienza, elemento di equilibrio anche esistenziale.
Roberta Valtorta 4 maggio 1994, Testo di presentazione al catalogo Trucchi di radianza, 1994
Ricordo di aver letto in uno scritto di Borges che un uomo, durante la sua vita, compie viaggi e attraversa luoghi e spazi, in direzioni diverse.
Alla fine della vita, il percorso che ha tracciato muovendosi sulla superficie terrestre viaggiando altro non è che il disegno del suo volto.
Non ricordo quale sia lo scritto di Borges, se l’uomo abbia un nome e se ciò che è rimasto nella mia memoria sia il particolare di una storia, oppure la frase pronunciata da un personaggio, un frammento di una riflessione o altro.
Preferisco, in questo momento, non ricercare con esattezza da quale esatta fonte provenga questo mio ricordo.
Mi sembra che Daniela Tartaglia, con il suo approfondire e al tempo stesso allargare questa sua ricerca, assomigli un poco all’uomo di Borges. Allo stesso modo compie un viaggio dentro una serie di luoghi e di oggetti, dentro la fotografia e contemporaneamente dentro se stessa.
La luce, le forme delle cose, le tracce che stanno sulle cose, l’apparizione e la sparizione delle materie sono pretesti affettivi, ganci visivi ai quali, sempre la fotografa appende qualcosa della sua storia interiore.
Il meccanismo secondo il quale ognuno di noi tende a orientarsi verso “certe” forme, certe proporzioni fra le cose, certe sensazioni che i luoghi e gli oggetti stessi emanano, e li preferisce, li sente come propri, è misteriosissimo.
La fotografia, che non è solo arte dell’evidenza ma, anche, sottilmente, talvolta, arte dell’impercettibile e dell’indicibile, offre in questo senso possibilità straordinarie.
Daniela Tartaglia è vicina a questo particolare versante della fotografia, e dunque il suo sguardo non rappresenta la scoperta del mondo, ma la ri-scoperta, nel mondo, di elementi che già possiede, già conosce: la visione diviene allora una forma di ri-conoscimento di dettagli, segni che sommati insieme indicano e indirettamente rappresentano, sempre, un unico luogo, il luogo della sua intima, originaria provenienza, il luogo finale della sua appartenenza.
Roberta Valtorta
Testo di presentazione della mostra Appartenenze, 1995, Università Bocconi, Milano
Le immagini di Daniela Tartaglia sono come nidi: fitti intrecci di quantità di cose aggrovigliate, tappezzati di ramoscelli, cosparsi di sassolini ed oggetti dimenticati. Ma anche: spazi reconditi, protetti, intimi, nei quali il nostro sguardo si sente a casa, al caldo, in un piccolo mondo divenuto presto familiare. Queste immagini sono alla ricerca del rigore delle masse e dello spazio sognante. Da una parte, la solida struttura dei lastricati, dei pali, delle pietre squadrate, dei lembi di muro troncati. Superfici dure, rotture nette, piani intersecati dove la luce urta e rimbalza come se fossero schermi per tornare verso di noi attraverso grandi superfici di chiarezza. Dall'altra, invece, distese dove la nostra immaginazione erra e si perde nel viluppo della vegetazione, si inoltra indefinitamente nell'ombra e nel mistero dei boschi come la luce stessa che, in profondità, si aggrappa solo a qualche raro ramoscello e finisce con lo scomparire. Incontro tra la vita e la morte. Le travi, le pietre spezzate sono oggetti uccisi che la natura inizia a digerire. La loro solidità è destinata ad una lenta digestione, perché proprio queste erbacce e questo fogliame copioso, nonostante la polvere, rappresentano ormai il trionfo della vita. Poco a poco, essi circondano e ricoprono tutto.
Da qui, l'irresistibile malinconia che permea queste immagini. Ciascuna diventa il luogo di una triste meditazione, un'allegoria del rimpianto. Vi ritroviamo la poesia delle rovine, cara a tutti gli spiriti romantici. Ma vi ritroviamo anche qualcosa di molto più moderno, ossia l'affermazione della presenza plastica delle forme nello spazio. Al di là delle idee malinconiche suggerite dal soggetto di queste immagini, la loro composizione, frutto di impeccabile maestria, ci porta a vedere solo la coerenza di masse luminose o scure che si incontrano, si rispondono e si equilibrano. In esse è contenuta una potente poesia che, tuttavia, non nasce più da ciò che si celerebbe dietro, ma si incarna in ciò che è l“, davanti a noi, e null'altro, rappresentando, in ultima analisi, la qualità essenziale di queste fotografie. "Oggetti inanimati, avete dunque un'anima che si rivolge alla nostra anima?". Queste parole ormai abusate di Lamartine esprimono un sentimento sincero, ma non si spingono sino al fondo della verità dell'arte. Malgrado ciò che ha potuto affermare Kandisky, la parte artistica della realtà non è costituita dallo spirituale che si cela dietro le cose, ma dal materiale che è nelle cose. Più giusta è dunque l'affermazione di William Carlos Williams secondo la quale la poesia più autentica sta nel sapere che le cose sono quello che sono, come sono, davanti a noi, e null'altro; sapere che esse non celano nulla, che nessun mondo riposto vi affiora e che bisogna - nell'arte - vedere solo ciò che ci è dato di vedere. Questa è la fonte potente di qualunque creazione, non la seduzione delle chimere. Credo che il merito più profondo delle opere di Daniela Tartaglia sia stato quello di far propria la malinconia avvincente delle cose che si annullano per superarla e vivere pienamente il fatto affascinante di esser presenti, nell'indifferente splendore di ciò che semplicemente è, perché, in verità, nell'arte non si tratta mai di anima celata ma sempre di presenza visibile. "Un artista moderno deve vedere ciò che è visibile e soprattutto non vedere ciò che è invisibile" (Paul Valéry). E "nell'opera, la straordinarietà è esattamente questa, ovvero che essa è l“ in quanto tale" (Martin Heidegger).
La sequenza estremamente elaborata delle immagini nella raccolta di Daniela Tartaglia tende poco a poco a mescolare due aspetti: la durezza abbandonata degli oggetti e la dolcezza insinuante della terra e delle piante che riporteranno tutto al ventre di madre natura. La luce e l'ombra si mescolano in modo sempre più intimo. Non bisogna percepire l'essere di queste cose come un sostantivo statico ma come un verbo dinamico. "La loro vita è un essere in divenire" (Heidegger) perché "il compito dell'artista non è tanto mostrare l'apparenza quanto rendere visibile l'apparire" (José Lavaud). Luci ed ombre finiscono qui per creare un ambiente visivo che non è più né fulgore né segreto, ma grigio ricco e profondo, vibrante, che sembra secernere la sua stessa chiarezza. Bastano pochi tratti taglienti per garantire la struttura di ciò che si presenta come un plasma originale in cui materia degli oggetti davanti a noi e materia costitutiva dell'immagine fotografica si uniscono e si confondono in uno stesso rifiuto di questa illusione superficiale: ciò che è noto. Giungiamo cos“ "al momento supremo in cui dobbiamo abbandonare tutto ciò che abbiamo creduto di vedere perché sapevamo dargli un nome" (George Didi-Huberman) e vedere solo ciò che è davanti a nostri occhi, in un mistero trasparente ma impenetrabile, nel cristallo di un'evidenza che non ha bisogno di noi. Qui si realizza la verità che è propria di qualunque fotografia, ossia dire le cose come sono senza mai domandare loro ciò che sono.
Jean-Claude Lemagny
Testo di presentazione al volume Appartenenze ,Art& (Edizioni delle Arti Grafiche Friulane), Udine, 1998
C'è una luce vagabonda. Riverbera ombre come sciabolate. Si traduce in visioni a volte spietatamente nitide, a volte baluginanti come dietro il tremito di una candela. Immagini come poesie arrivano all'inconscio per strade ignote, provengono da mondi percepiti più con i sensi che con le parole. Danno la sensazione fisica della materia e al tempo stesso la trascendono, come se la ricerca di Daniela Tartaglia affondasse il suo senso in un"sé" dell'umanità: irriconoscibile se ridotta a sola materia, eppure fondante il suo "esserci" come materia. "E questo che cos'è?". "Ma, nulla, una plastica gettata in un angolo di una serra...". Eppure a me era parsa un velo misterioso, dietro cui immaginare un segreto andare femminile, un movimento dell'aria come se di lì stesse passando la Gradiva. Il coraggio della visione è impresso nei "per sempre" rubato alla vita e alla morte dalla fotografia: l'immagine è totalmente "quì" e allo stesso tempo è "altrove"; è fantasticare di nature "morte" che inquietano i sogni, che diventano vive, che respirano lente, che illudono i sonni dicendo che la luce non è finita, ma no invece non c'è più.
La trama del racconto di Daniela Tartaglia in fondo sta proprio qui: in un lungo, inesorabile lavoro del lutto, in un sapere la perdita - delle persone care, degli oggetti, della luce - in un attraversare l'Ade - luogo dell'ombra, della morte - con il passo della fanciulla, della Core che vive parte nella luce, parte nel buio, parte nella vita, parte nella morte, in un'appartenenza ai due mondi, in un andare angosciosamente quieto tra i due mondi, non potendo fare che così. La foglia nel tremare della luce si allontana nel mondo dei fantasmi o ritorna dal buio chiamata da un improvviso grido? E noi che filo d'erba siamo nel bosco incantato, o che fiume secco o che pietra scheggiata? Perchè accade che le immagini prendano la forma delle nostre paure profonde come quando da bambini le venature del legno nella camera da letto, sull'armadio che incombeva quando gli occhi stavano per chiudersi, diventano di volta in volta mostri cattivi o folletti bizzari, o fiori di mondi che non si conoscevano, ma che da qualche parte - ne eravamo sicuri- dovevano pur esistere. Daniela Tartaglia ci riporta, con la forza delle sue immagini, lì dove sta il limitare tra l'inconscio personale (i ricordi, l'esilio e l'appartenenza dell'infanzia), e l'inconscio collettivo (le immagini archetipe dove nasce l'arte).
L'artista con aria lieve e grave (come poi si possa essere ed esprimersi in modo così totalmente opposto è un segreto suo) costringe alla visione, impedisce il fuggire, trattiene la pupilla, trasmette una sua febbrile ricerca, non dà requie al viaggiatore, non placa l'ansia del viandante nel mondo, quel vivere e morire che assale non come pensiero, ma come percezione fisica. Le sue fotografie sono il mezzo che lei ha inventato per dirci la sua Core, figura festosamente tragica, immagine del ritorno eterno e preludio dell'eterna perdita. La visione si imprime, inquieta: fango, rovina, e poi di nuovo primavera; pietra dolorante di solchi antichi e movimento di rami novelli. Il segreto non viene tradito: la Core sa solo che le tocca andare e venire. Null'altro va svelato.
Lella Ravasi Bellocchio
Testo di presentazione nel volume Appartenenze, Art& (Edizioni delle Arti Grafiche Friulane), Udine, 1998
Appartenenze
Ancora un’ autrice dalla forte personalità che mette in luce un soggettivismo dichiarato e richiami all’arte concettuale: Daniela Tartaglia, ricercatrice e docente di fotografia, da tempo realizza delle ricerche fotografiche dove il suo bianconero si trasfigura raggiungendo una strana atmosfera sospesa di sapore espressionista.
Ha ragione Jean-Claude Lemagny quando dice nel testo introduttivo che queste immagini sono come nidi perché costituite di tanti elementi eterogenei intrecciati fra di loro in modo inestricabile ma un’altra chiave di lettura viene fornita da Lella Ravasi Bellocchio che intitola il suo saggio “Materia emozionata”.
Guidati da queste due importanti intuizioni possiamo così addentrarci fra le immagini con cui Daniela Tartaglia ha costruito un percorso volutamente non lineare, spesso aguzzo e puntuto, pieno di trabocchetti affascinanti ( i tanti giochi di trasparenze che eludono i facili romanticismi) e di allusioni misteriose come le ombre che si muovono leggere ma anche di piani che si inseguono, si sovrappongono creando delle quinte o spezzandosi improvvisamente con un rumore secco.
Non c’è nulla da raccontare e quindi c’è molto da immaginare osservando questi bianconeri che sembrano inseguire le forme dei racconti di fate, gli incubi nascosti nel nostro giardino, il fascino delle stanze abbandonate dalle cui finestre rotte entrano i rami dei rampicanti, la luce filtrata dalle radici aeree e, forse, niente altro.
Roberto Mutti,
Fotopratica Immagini n.319 marzo- giugno 1999
Daniela Tartaglia
Si avvicina alla fotografia verso la fine degli anni Settanta, dopo la laurea in Scienze politiche con indirizzo storico, determinata a perseguire la propria vocazione creativa, a scapito di una promettente carriera universitaria. In quel tempo di idealità rivolte al sociale, il mezzo fotografico le appare quello più adeguato per un progetto di vita teso a far convergere la dimensione estetica con l’impegno nell’attualità; dove l’esuberanza emotiva diviene stimolo per intraprendere percorsi culturali nuovi. Nel 1981 apre con Serena Arcieri e Silvia Marilli lo spazio Fotostudio, grande poco più di una stanza, che in breve si impone quale punto di riferimento per la fotografia a Firenze.
Esso ospita infatti appuntamenti espositivi e incontri con autori, organizzati con passione ed entusiasmo, in spirito di avanguardia e di riscossa femminista.
Nelle prime mostre promosse da Fotostudio e dalla Libreria delle donne entro la metà degli Ottanta, su temi di carattere concettuale, tesi a far emergere la sfera dell’immaginario, del simbolico, partecipa con foto in bianco e nero di muri sporcati da vernici, scritte, manifesti, oppure con altre, in cui una figura maschile nuda, sul letto, è immersa nel sonno. Sono immagini di una realtà osservata a lungo e con fermezza, poi ripresa con occhio attento alle corrispondenze di linee, di piani, di centralità prospettiche, affinché il soggetto fissato acquisti intensità e predominanza. Questa attenzione alle forme, ai toni dei grigi, alla modulazione della luce, che rimanda alle visioni di Weston e di Strand, diviene nel corso degli anni la cifra stilistica della sua espressione. Nel ’85 si trasferisce a Milano, dove rimane un decennio. E’ un periodo intenso di esperienze, di studio, di lavoro, in cui smette quasi di fotografare, nel timore di non aver ancora raggiunto la piena padronanza del mezzo meccanico. Più consapevole delle potenzialità che esso può offrire, riprende l’attività alla fine degli Ottanta, animata anche dalla coscienza di una creatività risorta, dopo un tempo di incertezze espressive. Una creatività che scaturisce ora dall’adesione ai sentimenti profondi della sua infanzia, al ricordo quasi fisico della natura dolce della terra di Versilia. Con le fotografie della serie Orizzonti condivisi, si presenta nel’89 alla Biennale di Torino. Sono visioni diverse di un medesimo tratto di spiaggia dopo una mareggiata, concentrate sull’orizzonte che si profila sull’acqua.
La direzione le appare ormai chiara: il fine della sua fotografia è la poesia struggente percepita nell’adolescenza che mira a far proprio lo spirito dei luoghi, a fondersi quasi nei più piccoli elementi a coglierne l’essenza. Per questo prima dello scatto si impone una pausa, affinché lo sguardo trovi l’equilibrio di ogni cosa, il senso di armonia che rimanda ad un ordine ideale. Dalla serie Trucchi di radianza (1994), fino alla raccolta Appartenenze (1998), nelle sue visioni la luce e l’ombra si mescolano sempre più intimamente a creare un ambiente visivo denso, profondo e vibrante insieme, per il quale le è maestro il grande Sudek; un ambiente dove la durezza degli oggetti si fonde nella dolcezza della terra e delle piante riportando tutto nel “ventre di madre natura” (J.-C.Lemagny, Esserci, in Daniela Tartaglia, Appartenenze, Tavagnacco - Udine 1998, p. 8).
Materia in cui sgusci, ti intrufoli sempre più a fondo, dentro, da dentro senti crescere il mondo, lo vedi dalle feritoie, fino a diventare tu stessa questa ferita della terra che è il marmo: nascita, morte.Le immagini di Daniela Tartaglia racchiudono il senso ultimo della nostra esistenza: narrano della terra madre di vita e di morte, e sono fatte di una materia visionaria che non ha paura di raccontare la storia del mondo e la nostra personale avventura.
Sono le sue visioni che irrompono a dirci di noi, nella materia, la vita e la morte: sono corpi e tombe, sculture di marmo e di vento, il divenire passa per gli eventi.E’ pietra, è dura, è quella che non si lascia toccare, feroce, eppure diventa permeabile ad accoglierti, si lascia andare e si richiude a protezione. Ma di che? Di una gravidanza o di un lutto? Di un corpo vivo o di uno morto?Le immagini parlano con la voce della materia, da dentro le viscere della terra ti raccontano di te, dell’utero che ti ha protetto, del tempo della crescita, dell’espulsione infine, dell’espansione morbida in corpo danzante. Ma di colpo tutto volge nel silenzio di impronte mute. La polvere di marmo racconta in un’immagine un seno di latte: è un momento felice, ma un soffio di vento basta a spostarsi poco più in là ed è il deserto di polvere in cui giacciono abbandonate due schegge di marmo come lapidi in rovina.Mi viene in mente un verso del poeta Quevedo: “Polvo seré mas polvo enamorado”.E’ polvere innamorata la base materica e psichica di Daniela: le sue visioni interiori la portano a trovare nella materia un eros che dà voce e volto alla vita e alla morte. Cattura l’una e l’altra, le imprigiona per un attimo, per sé e per noi e poi le lascia andare. L’attimo si imprime anche nella nostra psiche, carico dell’emozione che freme in lei -“cuore violento nella fragile armatura” scrive Bertolucci- e viviamo con lei l’aritmia di un tempo infinitamente felice e infelice, che la terra custodisce, marmo aspro, fatica di secoli.
Il mare è poco distante; potrebbe essere dall’altra parte del mondo. Qui sono onde di pietra a luccicare, a giocare, a frangersi, a nascondersi. Anche il marmo è movimento: marmo di luce, polvere d’acqua, pietra di vento. E allora scopriamo che nelle immagini-visioni di Daniela Tartaglia c’è quanto di più concreto e astratto possiamo incontrare del mondo e della nostra vita: il racconto della dialettica dell’esistenza, messa alla prova, narrata poeticamente nella forma di qualcosa che sta nel tempo e nella storia come materia, marmo e polvere sì, ma “polvere innamorata”.
Lella Ravasi Bellocchio
Testo di presentazione al volume Assoluto Naturale, Arti Grafiche Friulane, 2005
In una sua nota, Daniela Tartaglia parla del suo lavoro come di “una riflessione e una indagine sulla natura come primaria forma di arte, sull’equilibrio compositivo, l’ambiguità della percezione e l’assolutezza della visione”. Si tratta di parole che toccano alcune questioni fondamentali per la fotografia e per l’agire artistico in senso più lato. Il definire la natura “primaria forma d’arte” può apparire posizione che rimanda a una idea classica di arte come derivato stesso della natura. Ma queste parole, dette da una fotografa e da una studiosa della fotografia quale Daniela Tartaglia è, significano qualcosa di ulteriore e di diverso: significano che attraverso l’utilizzo del mezzo fotografico è possibile, sempre, sviluppare un avvicinamento al reale, una esperienza del reale dal quale l’immagine fotografica necessariamente deriva. Il riferimento alla natura (al mondo esterno) indica che la fotografia riporta sempre il senso dell’arte al reale e, anche, che la fotografia è, come spesso diciamo, una forma di ready made, cioè un prelievo diretto dalla realtà.
L’equilibrio compositivo del quale scrive successivamente Daniela Tartaglia sta a indicare alcune qualità specificamente fotografiche quali il punto di vista, il taglio, la scelta della luce che determina pieni e vuoti, luci e ombre nel campo visivo, e distribuisce pesi diversi nell’inquadratura. E questo è, da parte della fotografa, espressione di una posizione chiara, semplice e definitiva nei riguardi della costruzione della fotografia come immagine. L’ambiguità della percezione, altra espressione che la fotografa impiega, significa l’incertezza del nostro rapporto con il mondo esterno, mutevole e sempre discutibile, che costringe l’occhio a un continuo lavoro di verifica e di creazione di senso. L’incertezza della percezione però, nelle sue parole, volge in una sorta di contrario, “l’assolutezza della visione”: ciò che è visto e scelto nell’atto del fotografare rimane, si fissa in ogni caso in una fotografia che, forse, stabilizza una qualche forma di certezza. Semmai, ciò su cui potremmo discutere è se ciò che vediamo in una fotografia sia frutto della visione umana (che ci riporterebbe all’incertezza della percezione) o della visione della macchina: le due visioni, sappiamo, non possono mai coincidere perfettamente, perché ciò che l’occhio vede la macchina non può esattamente registrare, poiché essa registra sempre, almeno, l’istante successivo, lo scarto di tempo, e vi è dunque una mancata coincidenza fra ciò che è stato davanti alla camera nel momento dello scatto e che la fotografia presenta ai nostri occhi, e ciò che gli occhi hanno percepito. Su questo terreno di certezze ma soprattutto di incertezze, Daniela Tartaglia lavora scegliendo come oggetti d’attenzione elementi del mondo a loro volta ambigui che stanno in bilico fra la natura (il marmo così come si trova in natura) e l’azione degli uomini (il marmo tagliato e lavorato). Sono oggetti che ci riportano a quella “ambiguità della percezione” di cui si diceva. E dunque, ciò che vediamo in queste fotografie sono marmi “naturali”, corpo pietroso della montagna, che per certi versi assomigliano a sculture fatte dagli uomini, a pietre tagliate e modellate dagli uomini; oppure vere e proprie sculture volute dagli uomini, installate in ambienti naturali, che però sembrano marmo allo stato naturale? E’ “la natura come primaria forma d’arte”. Il lavoro di Daniela Tartaglia è una delicata, pensosa riflessione su che cosa sia la scultura, su come ogni piccolo segno lasciato dall’uomo sulla materia naturale sia già scultura, su come, al tempo stesso, la natura sappia essa stessa produrre sculture senza l’aiuto dell’uomo. E’ un percorso in un paesaggio abitato da presenze complesse e forse indicibili: il luogo dei marmi che appaiono dal bosco, fra le foglie, forme accatastate l’una sull’altra, astratte, aperte, e invece, talvolta, insospettabilmente definite, “somiglianti” a forme conosciute ed esistenti in qualche dimensione dell’immaginario. Strani simboli sparsi nel paesaggio, sostanza costitutiva del paesaggio.
Come non pensare al non-finito di Michelangelo, nel quale potentemente si evidenzia il nascere delle forme dalla materia, delle “idee” dalla natura? A come tutta la scultura del Novecento abbia progressivamente “mescolato” esiti del gesto umano e stato della materia naturale, quando non ha lasciato che la materia parlasse del tutto da sé? Come non pensare alle azioni degli artisti della Land Art, che si sono “limitati” ad aggiungere pietre, o legni, al paesaggio naturale, o solo a comporli o a spostarli da un punto all’altro del paesaggio? E a come, nell’arte contemporanea, non esista più alcuna differenza fra materiali trasformati in forme concluse e definite, materiali allo stato grezzo, materiali lavorati industrialmente, scarti industriali? E infine, come ormai non possiamo non fare, al ready made di Marcel Duchamp, che nega la necessità della scultura, traendo da oggetti già esistenti possibili significati, stupori, interrogazioni? Il paesaggio dei marmi di Daniela Tartaglia è tutte queste cose insieme. Mostra di sculture all’aperto che nel tempo si sono coperte di erbe, frammenti di scenari preistorici, pre-artistici, oppure ingrandimenti di cristalli, impronte, discarica di avanzi di marmo, non sappiamo di quale grandezza, montagna lavorata, luogo di chi scava il marmo, luogo di terra senza cielo. Soprattutto, complesso insieme, talvolta lievemente ossessivo, di vaghe e ricorrenti forme interiori ritrovate nell’esteriorità del mondo, in un percorso sicuramente solitario, ricerca di strutture visive che sono strutture del pensiero e del ricordo, spaccature, pertugi, triangoli, superfici, rotondità, scritture, chiusure, di momenti dell’esistenza già vissuti, in cui perdere lo sguardo, a cui tornare.
Roberta Valtorta (3 aprile 2005 - catalogo mostra Daniela Tartaglia, AGF Udine 2005)
“ la creazione include anche un oscuro senso di minaccia e di morte”
L’incontro con Daniela mette in evidenza una sfaccettatura diversa delle essere donna fotografa, quello di una ricca e ampia conoscenza della storia della fotografia e di una totalità nell’aderire alla ricerca personale. La ricerca e il lavoro professionale sono contrastanti, dice, bisogna avere forza interiore e grande capacità di conoscere se stessi per fare le due cose. Penso, e l’ho visto accadere tante volte, che il lavoro professionale fagociti.
Daniela ha vissuto infanzia e giovinezza a Forte dei Marmi dove la sua famiglia aveva un bar; ma, ad appena quattro anni, perde il padre. Madre e figlia si legano in un rapporto forte di solidarietà e sostegno anche economico, giovanissima fa la baby sitter in ambienti culturali che l’arricchiscono e la portano a scoprire la sua attrazione per l’arte. In quegli anni conosce e poi sposa un giovane appassionato di musica e di cinema con il quale cresce in conoscenza e passione per quelle forme d’arte.
Ho cominciato a fotografare con una Canon FTb agli inizi degli studi universitari, intorno al 1974, senza nessuna velleità di fare la fotografa.
Laureatasi a Firenze in Scienze Politiche con una tesi in storia contemporanea accetta un incarico al CNR e , senza mai abbandonare la sua macchina fotografica , si cimenta nella natura morta, nel reportage, nel ritratto. Tuttavia con molto anticipo e chiarezza comprende che ciò che le interessa nel fotografare è riuscire a trovare un momento di equilibrio e di compostezza, una fusione profonda con l’anima delle cose e dei luoghi.
Quando fotografo amo essere da sola, avvicinarmi e allontanarmi dal soggetto, circuirlo, guardarlo da più punti di vista per poi decidere cosa voglio da lui. Non scatto a raffica, calibro le energie anche perché ogni scatto presuppone per me una scarica di adrenalina, una tensione creativa che alla fine mi lascia quasi sempre esausta.
Da Firenze - dove ha avuto insieme a Silvia Marilli, Serena Arcieri e Ferruccio Malandrini un piccolo ma attivo spazio espositivo, il “Fotostudio” - nel 1985 si trasferisce a Milano per approfondire altri aspetti della fotografia: conosce e diventa amica di Edward Rozzo che la introduce alla complessità della tecnica fotografica .
Ben presto però si rende conto che non le interessa la fotografia professionale poiché l'aspetto tecnico e la gestione del rapporto con la committenza le sembrano troppo stressanti. E' di vitale importanza per la sua crescita professionale l'incontro con Cesare Colombo con il quale fa anche esperienza di progettazione e organizzazione di mostre. Grazie ai suoi consigli si indirizza verso l’insegnamento della fotografia, del linguaggio fotografico, della storia della fotografia che ritiene possano rappresentare una valida alternativa per continuare , nel frattempo, con tenacia e determinazione la sua ricerca creativa.
L’atto del fotografare è per me un momento estremamente forte di introspezione e di riflessione che mi consente di mettere ordine nei pensieri e di trovare la pacatezza cui aspiro e che solo in parte mi appartiene.
E’ l’atto dell’indagine e della misurazione che mi affascina, l’attesa che implica la capacità di fare silenzio e di ascoltare affinché le cose rivelino la loro essenza e la loro anima.
A Milano insegna al Centro di Formazione Professionale R.Bauer (ex Umanitaria) – con pilastri della fotografia come Roberta Valtorta e Gianfranco Mazzocchi - e all’Istituto Europeo di Design. Contemporaneamente, lavora come ricercatrice iconografica per varie case editrici.
I dieci anni trascorsi a Milano sono molto importanti per la sua attività professionale poiché impara ad ottimizzare le informazioni, ad elaborare una progettualità fattiva , a trasformare il dubbio esistenziale e a domare la sua anima nomade . Stabilisce intensi rapporti umani e professionali con intellettuali e fotografi che di fatto persistono tuttora poiché fondati su un reciproco scambio. Nel 1995 torna a vivere a Firenze , intraprende una collaborazione con il Museo Alinari e con la scuola triennale di fotografia di Martino Marangoni e grazie al lungo lavoro su se stessa condotto negli anni milanesi può permettersi di aprirsi a un nuovo rapporto coniugale , e a concedersi finalmente un cane e una figlia.
La ricerca fotografica riprende, a Milano sentivo che la luce non mi era congeniale, mi sentivo inibita.
Inebriata e stordita dalla maternità riprende con maggior forza e determinazione il proprio percorso di indagine.
Dopo anni di assenza e di fuga sono tornata a fare i conti con le mie radici versiliesi, con l’immaginifico maturato durante l’infanzia e l’adolescenza, con esperienze forti che mi hanno segnata. (…)
L’immedesimazione con la natura, gli alberi, le pietre è totale, forse perché fotografo i luoghi che conosco intimamente e che intimamente mi appartengono.
Ricordo che da ragazza avevo un rapporto fisico molto libero e molto forte con la natura: i bagni nell’acqua del fiume d’estate e la scivolosità del muschio, la salsedine che mi arruffava i capelli e gli esami preparati in solitudine sulla spiaggia, al riparo di una cabina, il freddo umido dei miei risvegli all’alba, in attesa dell’autobus che mi avrebbe portata al liceo, allora in un altro paese.
Camino, cammino molto quando fotografo cercando di scoprire quello che mi scuote e mi intriga.
Non m’ interessa la catalogazione, non mi interessano i giardini perfetti i luoghi mi devono scatenare un turbamento amoroso, mi attirano gli elementi d’imperfezione. Ritorno sui luoghi tante volte. Il rapporto con questa mia terra, che sono tornata a fotografare da adulata e in un momento particolare della mia vita di donna, non è dettato da motivazioni paesaggistiche o di indagine sociologica.
Non è il lavoro dell’uomo e neppure la grandiosità della cava ad affascinarmi quanto la potenza e la complessità del marmo le sue forme imponenti e la delicatezza dei suoi scarti che fin da piccola hanno esercitato una forte attrazione su di me.
Allo spazio aperto della cava (…) ho sempre preferito lo spazio protetto e nascosto dell’argine la vegetazione che cresce libera e fitta fra i blocchi di marmo e gli scarti delle lavorazioni.
Le chiedo se nella sua storia di donna e di fotografa individua persone o critici che l’hanno sostenuta e aiutata a far conoscere il suo lavoro.
Per la sua crescita creativa è stata fondamentale la serenità acquisita attraverso il rapporto d'amore – un vero colpo di fulmine – con il marito, l'appoggio incondizionato rispetto alla scelta di essere freelance ed anche la collaborazione professionale che si è stabilita nel corso degli anni tra lui grafico e lei fotografa. Grazie a lui, grazie alla vitalità della presenza della loro figlia e all’amore puro del suo cane Dunia è riuscita a sconfiggere la paura di “essere “.
Ma ci sono anche altri momenti di svolta creati dal sostegno e dai pareri di diverse persone importanti. Innanzitutto il percorso analitico intrapreso con Lella Ravasi Bellocchio, non tanto e non solo a partire da un disagio esistenziale ma soprattutto per affrontare l'oscuro senso di morte connesso per lei alla creazione. Quella materna ma anche quella creativa.
Le mie foto mi piacevano, ma non le mostravo tanto facilmente, perchè l'esposizione al giudizio degli altri mi creava un insopportabile senso di insicurezza .Ciò che mi interessava era continuare la mia ricerca e mi dicevo che sarebbero venuti tempi migliori .
Poi accadde che Scianna capitasse dal nostro comune stampatore milanese mentre Stefano spuntinava le mie stampe: il suo giudizio positivo e l'invito a mettermi in contatto con lui rappresentò per me una vera svolta.
L’altra valutazione importante è stata quella di Jean Claude Lemagny, il direttore della Biblioteca Nazionale di Parigi: mi fu presentato la prima volta da Roberta Valtorta, in occasione di una mostra da lui curata a Milano e da allora, fra di noi ,ci furono diversi scambi di lettere ed altri incontri in occasione dei miei viaggi a Parigi. Non osavo tuttavia chiedergli un testo critico. Fu Elvire Perego, una cara amica francese, a convincermi a mandargli il menabò del mio libro : il suo giudizio sul mio lavoro fu così positivo che accettò di fare una presentazione al mio primo libro “Appartenenze”(1998)
PIETRA PRIMA DELL’ACQUA
Pietra prima dell’acqua. Cemento. Argini. E foglie.
L’Arno fotografato da Daniela Tartaglia fluisce tra muraglioni in calcestruzzo e frasche, scorre lentamente nell’alveo racchiuso nelle dualità duro/morbido, pesante/leggero, alto/basso, opaco/trasparente, laterale/zenitale. In queste alternanze, come contrappunti, risiede la forza di questo “atto di indagine e misurazione”, per usare le parole dell’autrice.
Indagine e misurazione sono proprie delle scienze esatte e delle scienze naturali. A tale proposito conviene ricordare come il concetto di paesaggio ha assunto nel tempo accezioni diverse. A seconda di come lo si osserva, il paesaggio ha mutato la sua natura, filtrandola continuamente, in base alle esigenze, da estetica a scientifica per poi tornare ad essere percezione, in successive alternanze. Il concetto di paesaggio diventa quindi fluido, a volte ancorato alle definizioni geografiche, topografiche e strutturaliste, altre volte vissuto come esperienza percettiva (visiva, sonora, olfattiva) o della memoria - anche collettiva, e quindi momento identitario, altra volte ancora come suggestione poetica o rappresentazione artistica.
La rappresentazione del paesaggio nasce con la storia umana: dai paesaggi di caccia e di rituali sciamanici alle vedute settecentesche il passo è breve. La fotografia prende poi il posto della pennellata; come le rappresentazioni che l’hanno preceduta, essa crea un paesaggio della coscienza, traghettando luoghi che credevamo di conoscere verso altre dimensioni. Dopo i paesaggi oleografici del territorio italiano la fotografia prende consapevolezza dei luoghi che ritrae; il fotografo si fa interprete del palinsesto del territorio; il paesaggio assume una sua forma propria, si fa strada un senso di disagio; la fotografia diventa - lentamente - pensiero.
In Diventa fiume Daniela Tartaglia ritrova le radici della propria terra. La sua fotografia è atto di conoscenza e di interrogazione; il fiume incamera la sua memoria, sussurra alla sua anima un sottile atto di denuncia, si fa manifesto ambientalista, mettendo in luce il contrasto tra tempi storici e tempi biologici, l’imponenza precaria dell’umano contro l’assoluto naturale.
La presenza umana (e animale) è discreta, più spettatori che attori; essi osservano, come la coppia a Bocca d’Arno, il risultato dell’operato umano sulla natura, argini, dighe e pescaie, le coltivazioni di cave e torbiere, pontili, perfino bunker sopravvissuti al secondo conflitto mondiale. È un ‘paesaggio della mente’ quello che ci propone Daniela Tartaglia, uno stato d’animo fluido, adagiato sul duro della roccia, o del cemento; come nella Cascata di Subbiano, l’acqua prende le forme spigolose della diga, copre come fosse un velo l’oscenità delle produzioni umane, e ne rivela il limite.
La immagini di Diventa fiume catturano in maniera esatta la contrapposizione tra liquidità e durezza; esaltano la gravità del fluido che si fa materia, l’immobilità della roccia e del cemento, che oppongono resistenza ma, levigandosi, cedono la sostanza al tempo.
Giovanni Fontana Antonelli, 2017 in Diventa fiume, Polistampa, Firenze 2017